Lascio che le cose mi portino altrove

L’Economist ha di recente dedicato un ritratto a Dov Charney, che ha 37 anni e un’aria giovanile, ed è il fondatore di uno dei successi commerciali americani più affascinanti di questi anni, con il marchio di abbigliamento American Apparel. La sua storia e il modo illuminato e inconsueto con cui manda avanti la sua azienda sono notevoli, ma qui sarebbero fuori tema: ne parlo, perché a un certo punto Charney definisce lo zoccolo duro dei clienti di American Apparel “cultura mondopolitana”. La definizione mi pare interessante per individuare un gruppo sociale e culturale che esiste anche in Italia, e che è del tutto sottorappresentato in ogni ambito: sono quelli che hanno tra i 25 e i 40 anni, curiosità per il mondo e i tempi e attenzione a quel che succede, cultura e privilegi per seguire molti interessi (su tutti l’attualità internazionale, la tecnologia, la musica, l’America, la cultura pop). Che hanno come modelli culturali i paesi anglosassoni e le loro modernità. Che non hanno nessuna rappresentanza politica e votano turandosi il naso, quando votano. Che non amano nessun giornale italiano (salvo Internazionale): al massimo li leggono, tollerandone le mediocrità. Che non si riconoscono nella programmazione da pensionati della gran parte delle reti generaliste ma nemmeno in quella da teenagers o da tiratardi-nei-centri-commerciali di Italia Uno. Che sono troppo vecchi o troppo colti per MTV. Che hanno un potere di consumatori e un’inclinazione al consumo del tutto attraenti per la pubblicità. Che privilegiano internet come fonte di informazioni, spettacoli, divertimento. La domanda è: lo fanno perché sono convinti che su internet ci sia tutto e che quello sia l’unico mezzo che conta, o perché non hanno alternativa, in Italia? Io chiedo in giro: la seconda, mi dicono.

Vanity Fair

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