Un grande paese 2012

Ho scritto un libro che è uscito ormai più di un anno fa, e si chiama “Un grande paese”: le cose che c’erano dentro si mantengono piuttosto attuali, e anzi alcune lo erano meno e lo sono diventate di recente, quindi mi fa piacere che ci siano persone che ancora lo leggono e citano (me compreso, come avrete notato). A Natale ne pubblicammo con Rizzoli una versione modestamente rivista e con una nuova prefazione, in versione ebook. Quella prefazione adesso la pubblico qui.

Quando è uscito questo libro, prima dell’estate 2011, ad alcuni lettori di risvolti di copertina i suoi temi sono sembrati in sintonia con le celebrazioni allora in corso per i 150 anni dell’unità d’Italia, e la copertina tricolore stessa tendeva a confermare questa impressione. In realtà scegliere una copertina per rappresentare dei pensieri sul presente e sul futuro dell’Italia non era stato facile, e alla fine la scelta più istituzionale e tricolore ci era sembrata la meno incongrua, vivacizzata da qualche sbaffo creativo. In fondo il libro parla anche di inventarsi un altro modo di chiamarla patria, e ci siamo inventati un altro modo di disegnare la bandiera. Ma dell’Unità d’Italia invece qui non si parla quasi per niente: e anzi ci si pone la questione non tanto dei 150 anni passati ma dei 20 futuri, di come stiamo messi e cosa vogliamo fare se ci è cara l’idea che quello in cui viviamo possa essere un grande paese.
Passata la breve sbornia risorgimentale (saremmo ancora dentro l’anniversario, mentre scrivo queste parole nuove, ma non se ne occupa più nessuno tranne certi tenaci giapponesi intorno alle rive torinesi del Po), alcune delle cose che davvero avevo scritto hanno invece continuato a ribollire sotto i coperchi della politica italiana e sono diventate improvvisamente di popolare attualità alla fine dell’estate, con la crisi e la trascinata fine del governo Berlusconi e con i modi della costruzione di quello che lo ha sostituito, guidato dal professor Mario Monti. Tra queste cose di cui tutti si sono messi d’un tratto a discutere, soprattutto, il tema delle responsabilità delle classi dirigenti, delle élites, e della loro adeguatezza a ruoli importanti e tempi tempestosi; e anche quello della messa in discussione generale della democrazia così come funziona oggi: due nodi che in questi anni si erano gonfiati di indizi, opinioni, discussioni più o meno sotterranee e ora erano venuti al pettine italiano in un giorno di novembre nelle mani del barbiere del professor Monti (che come ci hanno raccontato, apre la domenica per fargli i capelli negli unici momenti liberi, del professore) e del presidente Napolitano.


Il tema delle élites e della comunicazione dispregiativa nei loro confronti è stato centrale nella politica recente italiana e non solo italiana: il populismo berlusconiano (ma anche, molto forte, quello statunitense dei Tea Parties, annunciato dai precedenti successi di Sarah Palin) ha promosso una grande diffidenza nei confronti della cultura, dell’eccellenza, dell’intelligenza, in favore della furbizia dell’uomo medio, della familiarità del suo somigliarci ed essere “normale”. Abbiamo, a un certo punto, smesso di votare persone straordinarie e capaci (migliori di noi) preferendo loro persone normali e ordinarie (come noi, o persino peggio, per gratificare così la nostra vanità). E abbiamo costruito, da destra a sinistra, tutti, una mitizzazione della presunta “gente”, del “territorio”, delle persone qualunque: mitizzazione che invece di vederle giustamente e concretamente come richiedenti e destinatari di politiche illuminate le ha promosse a costruttrici di quelle politiche, sia retoricamente che concretamente. La demagogia ha sostituito la politica, la ricerca del consenso a breve termine è diventata il motore di quasi tutte le scelte pubbliche ma anche private (tutto questo è spiegato un po’ meglio e argomentatamente nel testo). L’espressione “scelte impopolari” è stata messa al bando con terrore. E coloro i quali avessero competenze o qualità “emergenti” e speciali sono divenuti bersaglio delle nostre insicurezze e spirito di competizione, e accusati di presunzione, privilegio, “superiorità morale”: chi ti credi di essere e non accetto lezioni sono oggi tra le espressioni prevalenti del dibattito pubblico. Come ha scritto Beppe Severgnini commentando a suo tempo questo libro: «L’idea che l’uomo della strada costruisca un ponte mi terrorrizza: preferisco se ne occupi un ingegnere. Per lo stesso motivo vorrei eleggere il mio rappresentante in Parlamento, e non avallare la scelta di uno scudiero da parte del Signore. Ma se lo scrivo i neo-populisti dicono: smettila, snob».

Invece, le cose stanno diversamente e le avevamo sempre pensate diversamente: lo ha spiegato – sul tema comincia a costruirsi una produzione saggistica interessante – Carlo Galli in un libro uscito da poco (Il disagio della democrazia, Einaudi 2011): «La politica consiste sempre e invariabilmente nella supremazia di una “classe politica” sul resto della società, e anche la democrazia è quindi il governo di qualche élite, ad esempio dei ceti dirigenti dei partiti politici o delle burocrazie statali; il massimo che si possa chiedere, e che è giusto chiedere, alla democrazia, è che queste élites siano plurali, competitive, e che si sottopongano periodicamente a quel controllo da parte dei cittadini che sono le elezioni». Il guaio è che le nostre si sono sottoposte, e quel che ne è uscito non è stato “competitivo” per niente. Perché le democrazie non funzionano bene solo funzionando in quanto democrazie: funzionano bene se sono democrazie informate, se i cittadini hanno occasioni e strumenti di scegliere con consapevolezza e lungimiranza. Per molto tempo la democrazia è stata celebrata come un valore in quanto tale. Poi, in qualche occasione lontana – paesi arabi in cui democratimante vincevano movimenti fanatici persecutori di donne e infedeli, altri in cui invece i diritti venivano garantiti addirittura da gerarchie militari – abbiamo cominciato a capire che esistevano delle contraddizioni. Infine quelle contraddizioni sono arrivate fino da noi, e nei giorni recenti di queste rinnovate riflessioni Massimo Gramellini – ma il dibattito è cresciuto molto in tutto il mondo – è arrivato a proporre di ridiscutere il suffragio universale, in un articolo sulla Stampa (sentinella dell’Italia unita): «Dirò una cosa aristocratica solo in apparenza. Neppure le sacrosante primarie bastano a garantire la selezione dei migliori. Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? E adesso lapidatemi pure». Non è un caso che nessuno lo abbia lapidato: la sua proposta è infatti inaccettabile – una società che voglia davvero affrontare il problema si fa carico di insegnare educazione civica e Costituzione, non di punire chi non le conosce – ma non inaudita, di questi tempi.

E quando il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dato l’incarico di formare un nuovo governo a Mario Monti, uomo estraneo alla politica e ai partiti, e i partiti si sono disposti – in nome della crisi finanziaria e di una consapevole inadeguatezza ad affrontarla – non ad “appoggiarlo” (non era il loro governo) ma di fatto a farsi da parte, persino i commentatori più moderati hanno riconosciuto si stesse verificando una grossa anomalia democratica. Tra gli altri sia Michele Ainis sul Corriere della Sera che Gustavo Zagrebelski su Repubblica hanno spiegato – sono stati costretti a farlo – come nei fatti Napolitano si sia mosso assolutamente dentro le sue “prerogative”: ma l’uno descrivendo la condizione inusuale di un parlamento quasi esautorato e l’altro quella di un sistema di partiti svuotato delle sue funzioni e della capacità di svolgerle. Non è eccessivo parlare di “sospensione della democrazia”, almeno nei termini del suo regolare funzionamento: c’è un governo che non è espressione dei partiti e del parlamento eletto dei cittadini e anzi è distante da qualunque cosa i cittadini avessero in mente quando hanno votato, esercitando il diritto democratico.
Ma la maggior parte dei cittadini lo approva, è stata l’obiezione: obiezione ulteriormente rivelatrice dell’assimilazione di quella sospensione da parte di tutti. Al suo nascere il progetto Monti ha ottenuto un favore eccezionale: che si guardassero i sondaggi o si parlasse con le persone, non si ricorda un governo nato con ostilità così confinate e con aspettative così grandi. Con improvvisa indulgenza nei confronti degli aspetti oligarchici ed elitisti della sua composizione che sono solitamente assai mal tollerati, come dicevamo. D’un tratto, insomma, eravamo diventati un paese elitista, desideroso non più di rappresentanti “normali”, persone qualunque, come noi, e restituivamo i ruoli importanti alle grandi competenze e capacità, a quelli bravi e straordinari. Ma non è proprio così. Ci ha mossi qualche altra cosa.

Quello a cui abbiamo assistito sembra piuttosto il ritorno dell’uomo forte (travestito da uomo mite, col loden), e in particolare del desiderio dell’uomo forte. Non è infatti la effettiva forza del prescelto a fare il tema dell’”uomoforte”, ma il desiderio popolare che arrivi qualcuno a sistemare le cose o a convincerci che le sistemerà. Gli italiani che nelle ore dispari andavano dicendo che non sono i nomi che contano, che contano i progetti, che bisogna stare attenti ad affidarsi a deus ex machina, messia e artefici di miracoli, nelle ore pari sognavano invece esattamente l’artefice di miracoli, e quando si è presentato circonfuso della “sobrietà” immediatamente celebrata ed enfatizzata dai giornali si sono raccontati che il loro desiderio fosse una cosa diversa solo perché Monti era una cosa diversa dagli uomoforti che lo avevano preceduto. Il risultato non è certo una dittatura – ci mancherebbe – ma il desiderio che lo appoggia somiglia molto a quelli che in altri tempi hanno consentito le dittature, o le applicazioni disinformate della democrazia, di cui qui avevo scritto.
Ci sono belle differenze, non me lo fate dire che è inutile. Ma persino quell’articolo di un rigoroso giurista come Ainis mostrò tentazioni notevoli in questo senso, dove diceva che il parlamento si è meritato la sua messa in castigo e che questa non potrà che fargli bene – evocazione fin troppo facile di “fare di quest’aula sorda e grigia…” – e anche che è una condizione solo temporanea, espressione tipica e insincera di ogni avvio di esautorazione dei parlamenti e sospensione delle democrazie.

Il giorno dopo quell’articolo il sociologo Giuseppe De Rita, in un’intervista alla Stampa fatta da Mattia Feltri, ci tenne a sancire controcorrente il suo scarso apprezzamento per il governo Monti ma ammise che il percorso storico non potesse che dare una nuova chance alle élites – in alternativa al populismo – e che queste debbano stare molto attente a non buttarla via. Altrimenti ritorna l’uomo forte quello vero, come quello che era appena passato. E questo è il campo di gioco del governo Monti: che ha ora la chance – dopo che un colpo del destino ha messo uomini colti e competenti a guidare l’Italia che ripudia gli uomini colti e competenti – di provare a riallineare la propria natura con il consenso democratico. Chi voteremo, alle prossime elezioni: ancora vicini di casa, ospiti televisivi, guidatori di trattori ed “estranei alla politica”, o persone che la politica vera la conoscono, che hanno studiato e fatto esperienze utili a quell’impegno straordinario che è rappresentare tutti gli altri nel gestire un paese?
Alla fine, questo vuole la gran parte degli italiani, certo non tutti: persone capaci e toste in grado di gestire le cose al posto suo. Ci samo trovati nella paradossale situazione per cui il sistema democratico ne aveva scelte di disastrose e quello antidemocratico di capaci (con la complicità solo parziale di una pessima legge elettorale). Nuova lampante dimostrazione della pluridibattuta crisi della democrazia e della sua fragilità in assenza di una crescita civile e culturale delle persone: “Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra”, diceva Goffredo Parise, che ho citato più avanti nel libro.

Questo non significa ovviamente che tutti noialtri dobbiamo tirare i remi in barca ora che è arrivato un governo che conosce i propri campi di intervento (sui quali potrà lo stesso fare molti sbagli, e anche guadagnarsi la riprovazione popolare, per carità): anche se c’è in giro una gran voglia di respirare dopo questi anni soffocanti di politica violenta e invadente quanto vuota ed effimera. Lo dicono i consensi e le attenzioni calanti per i programmi tv e le iniziative giornalistiche che in questi anni si sono più dedicati alla promozione dello scontro tra le parti politiche. Ma in molti siamo ancora convinti, appena riprendiamo le forze, che la ricostruzione (o la costruzione) dell’Italia, di un’Italia di cui andare orgogliosi, passi per quello che fa ognuno di noi, anche se spesso ci chiediamo cosa possa essere. E anche su questa domanda, questo libro aveva cercato di mettere un po’ di carne al fuoco, a partire dalla comprensione di cosa siamo diventati e cosa vogliamo da noi.
Lo sviluppo di una cultura che investa fiducia e aspettative nel ruolo e nelle capacità delle classi dirigenti – e nella formazione di quelle classi a partire dalla libertà e opportunità di ingresso per tutti, come ha detto di recente in un’intervista il maestro Roman Vlad: «Tutti, invece, dovrebbero far parte dell’élite» – dovrebbe essere il primo obiettivo di élites che vogliano trovare anche una indispensabile legittimazione democratica. Perché prima o poi, ci mancherebbe, si torna a votare.

p.s. Ci sono altre cose puntuali che ho letto in questi mesi e che arricchiscono le storie di questo libro. Una, per esempio, è che la critica alle conseguenze dell’espressione “sii te stesso” – che finora è ne stato uno dei passaggi più ripresi e discussi – aveva illustri precedenti almeno in questa citazione del romanziere novecentesco inglese J.B. Priestley: «“Sii te stesso” è direi il peggior consiglio che si possa dare ad alcune persone».

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4 commenti su “Un grande paese 2012

  1. Broono

    Io ho pagato dazio (per lo spazio che mi prendo io sempre) e me lo sono letto.
    Mi viene da suggerirti un libro che con molta probabilità conosci già e non servo io che arrivo con un titolo che fu una scoperta solo per me, ma magari no vai a sapere.
    “Homo videns” di Sartori.
    Democrazia informata, iperinformazione e (conseguente) sottoinformazione, pedagogia e relativo futuro, sotto forma di analisi e processi tecnici.
    La cosa che lo rende meritevole di lettura è che la prima edizione è del ’97 quando non poteva che essere approcciato come uno dei tanti elenchi di ipotesi di percorsi verificabili solo sul lungo termine, ipotesi che lette oggi a vent’anni di distanza e quindi con la verifica delle tesi, sono più precise di un tomtom.
    Se l’ho capito io vuol dire che è pure semplice, ma lo stesso è un testo che scende a un livello di dettaglio tale che lascia davvero pochi alibi a chi spensa che farsi scivolare addosso questo presente sia una scelta attiva, prima che furba.
    E’ già qualche post che tratti il tema informazione e che avevo voglia di suggerire questo titolo, ma temevo sempre l’OT.
    Oggi parli di libri e credo sia il posto giusto per questa vera e propria mappa di sopravvivenza.

  2. il coccia

    ho comprato e letto l’ebook, ricavandone la strana sensazione di ritrovare parecchi dei concetti che sento miei da moltissimi anni, scritti bene, con cura, con attenzione al contenuto e al modo, con passione e lucidità. Roba rara, bravo Luca.

    (l’aspetto brutto degli ebook è l’impossibilità di prestarli a parenti e amici, il che nel caso specifico sarebbe davvero sensato… vabbè)

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