Populismo, elitismo, e Sarah Palin

Da qualche settimana è tutto un gran parlare di populismo (oggi due editoriali su Corriere e Repubblica “contro il populismo”), con accezioni spesso diverse e spesso generiche. Ne approfitto per mettere online un capitolo di Un grande paese in cui a un certo punto si cercava di darne una definizione e di metterlo in relazione con gli altri “ismi” in circolazione. Roba lunga, avvisàti.

Ho un caro amico con cui litigo spesso, come capita. La tipica coppia che si vuole bene e non si sopporta, e più si frequenta e meno si sopporta. Tra le altre cose su cui litighiamo tuttora c’è questa, che racconto dal mio parziale punto di vista. Il mio amico è una persona colta e avida di sapere cresciuta in un tempo in cui la cultura e l’avidità di sapere sono vissute con senso di colpa nei confronti di chi non le possiede, e in cui cultura e avidità di sapere sono associate a scarsa familiarità con pratiche più virili, concrete e vicine alla realtà quotidiana. In più, è un tempo che ha sdoganato da parecchio le culture e i mondi più leggeri, frivoli e popolari: consentendo così a molti di noi di costruirsi carriere e coscienze a base di equilibri tra «il serio e il faceto», «il basso e l’alto», in cui la convivenza tra le diverse categorie viene spesso trasformata in loro omogeneità. E insomma, se io dico che ci si può occupare sia di Dostoevskij che di X Factor, ma Dostoevskij è meglio e più importante per l’umanità, il mio amico nega. Non dice nemmeno che sono uguali, dice che non è un piano su cui vuole scendere. E che casomai, Dostoevskij è più noioso di X Factor, qualche volta. Quelli come lui hanno avuto in regalo da qualcuno l’espressione «cultura pop» con cui ammantare del pregio della parola «cultura» qualunque cosa conosca una qualche diffusione quantitativa, buona o cattiva che sia. E se io dico che è giusto che ognuno di noi si prenda la responsabilità di insegnare agli altri con i mezzi che ha, le cose che sa e che ha capito, il mio amico si tappa le orecchie e comincia a fare «lèrolèrolèrolèro», per poi dire che è prepotente e presuntuoso pretendere di dare lezioni agli altri e di investire i media e la televisione di ruoli pedagogici. Per ridicolizzare entrambe le nostre visioni della società, posso dire che la sua risale a «panem et circenses», la mia a «educare le masse»¹.

Fatto sta che lo scorso autunno il mio amico scrive su Twitter che gli è piaciuto molto un commento che ha letto sul «New York Times»: «brava Maurina» commenta. «Maurina» per lui è Maureen Dowd, columnist combattiva e sarcastica-a-tempo-pieno in servizio al «New York Times» da quindici anni, premio Pulitzer. Incuriosito da questa indicazione, vado a leggere l’articolo di «Maurina». Si intitola L’ignoranza diventa chic. Parla a lungo di Marilyn Monroe e della convivenza in Marilyn di un’immagine di bella-e-stupida e di un’aspirazione a essere altro ed essere giudicata altro. Dice Dowd che allora «essere in gamba era considerato cool.² Marilyn aspirava a leggere buoni libri ed essere amica di intellettuali, fino addirittura a sposarne uno» (era Arthur Miller). Ma ora, e qui arriva il punto di Dowd, «un’altra famosa bellezza, Sarah Palin, ha reso cool l’ignoranza». Chi se ne importa se non sai dire che giornali leggi, se confondi i nomi, se non ti ricordi la storia, spiega Dowd: sempre meglio che essere uno di quegli «smidollati elitisti» come il presidente Obama. Ed elenca i sempre più frequenti casi di leader politici e uomini delle istituzioni ignoranti delle istituzioni stesse, della loro storia e della Costituzione, ignoranti della lingua e fieri di esserlo. «Quando si tratta di guidare il Paese, la straordinarietà dei leader è vista con sospetto: per queste persone i leader devono essere proprio come voi.». E conclude: «Nell’America di Marilyn c’erano ambizioni. Gli Studios andavano in cerca di letteratura e romanzi piuttosto che libri di battute o schifezze ombelicali. Fantasia di Walt Disney associava i cartoni animati a famosi compositori di musica classica. Anche in Bugs Bunny c’era Wagner».
Bello, ho pensato. Bello e deprimente e vero. Per un po’ mi sono dimenticato del mio amico e ho pensato a Marilyn Monroe, e a Sarah Palin.

Il 29 agosto del 2008 John McCain, avversario di Barack Obama nella competizione presidenziale, tirò fuori dal cappello un coniglio che condizionò in effetti tutta la campagna successiva, e rubò la scena allo stesso Barack Obama, beniamino dei media e già eroe di mezzo mondo per quello che era riuscito a ottenere. Nel cappello di John McCain c’era Sarah Palin.
Sarah Palin fu un’invenzione comunicativa straordinaria e geniale. McCain era un anziano uomo di politica ed eroe di guerra, rispetto a Obama giocava in un altro campionato: aveva tutte le doti per conquistare gli elettori di una volta, quelli che badano alla sostanza, all’esperienza, alla solidità del candidato. Quelli chi-lascia-la-via-vecchia-per-la-nuova. Ma gli elettori di una volta vanno diminuendo, in tutto il mondo, e Obama aveva dalla sua una formidabile potenza di immagine, l’entusiasmo che trasmetteva, l’idea di cambiamento e di modernità che offriva a un bel pezzo di America molto disincantata sull’amministrazione precedente, e un fascino che non si vedeva alla Casa Bianca dai tempi di Kennedy. Obama era figo e stava andando fortissimo.
Ed ecco allora il candidato alla vicepresidenza annunciato da McCain una settimana dopo che Obama ha presentato il suo (un senatore sessantaseienne azzimato e discreto, per ragioni simmetriche): McCain estrae Sarah Palin. Donna. Governatore dell’Alaska. Repubblicana. Supermamma. Tutto il contrario di Obama, ma nello stesso campionato.³ Sarah Palin è sexy, spiccia, concreta, moderna a suo modo. Di questo millennio. La sua linea politica universale è fintofemminista e declinabile ovunque: se-una-donna-saallevare-dei-figli-può-fare-qualunque-cosa. Sbucata dal nulla, o almeno dall’Alaska: la cosa più simile al nulla nel nostro mondo.

I media impazzirono per lei, e anche un bel po’ di americani che non vedevano l’ora di essere trascinati in battaglia: malgrado il curriculum militare, McCain era troppo moderato e anziano per fare a botte, e troppo equilibrato. Era noto per frequenti intese bipartisan con i parlamentari democratici. La competizione con Obama era tutta in punta di fioretto ed eleganza, in un clima politico ben lontano da quello che l’aveva preceduta e che l’avrebbe seguita. Sarah Palin invece scatenò una crociata che al confronto il pericolo comunista evocato quaggiù da Berlusconi erano bruscolini (bruscolini dello stesso genere, comunque: nel peggio le similitudini tra Italia e Stati Uniti sono più numerose).
I media impazzirono per lei, perché un candidato vicepresidente donna di bell’aspetto (versione sexysegretaria) e di battute sventate è il sogno di qualunque redazione giornalistica, subito dopo la nomina di un transessuale alla segreteria dell’Onu. Ma gli osservatori politici seri cominciarono presto a guardare con sospetto alle dimensioni della inesperienza della candidata e alla sua inadeguatezza al ruolo, che si resero più palesi e poi plateali di giorno in giorno. Rapidamente, il giudizio su Sarah Palin separò in modo netto gli americani: da una parte le élite della politica e dell’informazione e gli elettori più attenti ed esperti, dall’altra una gran massa di americani a cui non interessava niente di ciò che Palin sapeva o soprattutto non sapeva fare: era ai loro occhi una di loro, e aveva voglia di menare le mani, come loro. Soprattutto diceva di voler menare le mani con quelli che «pensano di essere migliori degli altri» e «vogliono dire agli americani cosa devono fare».

La battuta più celebre e vituperata nel lungo repertorio di gaffe e ingenuità del candidato Palin è quella sulla Russia vista dalla sua finestra. In realtà lei non la disse mai come poi le è stato rinfacciato dai suoi critici e da mille gag comiche televisive. Cioè, non disse mai, a proposito delle sue competenze in politica estera: «Conosco bene la Russia: la vedo dalla finestra di casa mia, in Alaska». Ma successe questo: l’11 settembre 2008 fu intervistata da Charlie Gibson della Abc che le chiese conto di una frase di McCain sul fatto che la vicinanza dell’Alaska alla Russia fosse una credenziale rilevante nel futuro della sua vicepresidente. Gibson le chiese se lei fosse d’accordo, e Palin rispose: «Sono i nostri vicini di casa, e dall’Alaska puoi persino vederla, la Russia: da un’isola dell’Alaska».
Quella analisi elementare divenne, per i suoi detrattori, la sintesi della politica di Sarah Palin. E per quanto sia stata poi travisata e strumentalizzata, lo era davvero. Il dibattito giornalistico e politico che ne seguì fu molto ricco, e riguardò la contrapposizione tra elitismo ed antielitismo (c’è una differenza tra i termini «elitismo» ed «elitarismo», e anche tra i loro diversi usi, e la spiego tra poco). Le ragioni per una simile discussione non nascevano con Sarah Palin, naturalmente. La comunicazione «antipolitica» è nata il giorno dopo la politica, e il tentativo di spacciarsi per «uno di voi» è stato intrapreso da quasi tutti, e con maggior sforzo da quelli in realtà più «diversi da voi». Lo stesso George

W. Bush, malgrado tutta la sua dinastia ed educazione, aveva a suo tempo visto premiato il suo «parlar chiaro» e i suoi modi così distanti dall’aristocrazia della politica e della cultura. Non un intellettuale: un uomo del ranch. Ma con Sarah Palin il percorso si completa e perfeziona e ottiene il successo desiderato: la gente ci crede, e lei – per quanto governatore di uno Stato – è davvero «normale», in quel senso (il primo criterio in base al quale un candidato è giudicato normale è la sua ignoranza: l’antielitismo si associa all’antintellettualismo, anch’esso di lungo corso). Col suo successo fa un notevole balzo in avanti il fenomeno sociale che invoglia ad affidare grandi impegni e grandi responsabilità che riguardano tutti non a una persona di doti straordinarie e competenze specifiche e adeguate, ma piuttosto a una persona «normale», uno di noi, che limiti le sue capacità a sapersela cavare in un compito qualunque: si tratti della gestione familiare, della conduzione di un’azienda o di un programma televisivo. Persino della spesa al supermercato, o di una punzione dal limite4.

Per capire cosa sia successo – in America ma anche in Italia, ci arriviamo – bisogna prendere in considerazione l’uso di una manciata di -ismi, maneggiati da politologi, sociologi e commentatori con significati di volta in volta diversi o che si accavallano: elitismo, populismo, elitarismo, antielitismo, pluralismo, egualitarismo. Cerco di essere sintetico, che questa è la parte noiosa, ma ci sono rischi di equivoci con le parole di cui ci dobbiamo liberare.
Storicamente l’elitismo è stato due cose assai diverse: una teoria «descrittiva» di una realtà oppure un pensiero e un progetto. La prima constata e sostiene che il potere politico sia sempre in mano a un’élite di qualche tipo, a un gruppo di persone che lo detiene per censo o per appartenenza a un sistema, indipendentemente dai procedimenti democratici che glielo hanno consegnato. Quest’analisi può essere neutra, o più frequentemente critica, nelle sue banalizzazioni: spesso diventa sinonimo di «comandano sempre gli stessi», e genera quindi un «antielitismo» (rafforzato da «è tutto un magna magna») che predica la necessità di cambiare questo stato di cose. Però la teoria dell’elitismo può anche essere positiva, e trasformarsi allora in un’idea costruttiva e un pensiero politico: sostenendo che è giusto che a compiti straordinari si dedichino persone di qualità straordinarie a patto che ci sia un ricambio che garantisce la continuità di quelle qualità. Definendo quindi positivamente le élite come contenitori rinnovabili di qualità, merito e competenza.

Come si capisce, lo scarto tra i due modi di intendere l’elitismo deriva dal diverso modo di intendere la composizione delle élite e dai processi storici che le hanno formate: dove, come prevalentemente avviene oggi in Italia, le si ritengano consorterie di potere aliene da punti di merito e chiuse al ricambio, esse divengono un nemico da smantellare, e legittimano gli antielitismi. Se invece si dà al termine un significato più nudo e proprio, che definisce gli «eletti», non solo nel senso democratico (quelli che sono stati eletti) ma nel senso per cui si dice anche «il popolo eletto», ovvero coloro che hanno talenti e qualità eccezionali e superiori rispetto a un compito o un destino, l’elitismo che mira a promuoverli assume una connotazione positiva (migliori risultati nelle scelte delle classi dirigenti si avranno quindi quando gli eletti dalle loro qualità coincideranno con gli eletti dai voti: sintomo della realizzazione di una democrazia informata).

È interessante come l’accezione della parola cambi nelle varie lingue su Wikipedia. La pagina italiana si barcamena ma suggerisce l’accezione negativa:

L’elitismo è una teoria politica basata sul principio minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano a una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia, classe politica, oligarchia.

La pagina angloamericana è molto chiara sui due significati, privilegiando quello positivo ma mimetizzando il discutibile «ricchezza» in mezzo agli altri e più apprezzabili «attributi particolari» propri delle élite:

L’elitismo è l’idea o la pratica per cui gli individui che sono considerati membri di un’élite – un gruppo selezionato di persone con capacità personali superiori, dotate di intelletto, ricchezza, competenza o esperienza, o altri attributi particolari – sono quelli le cui opinioni su una materia devono essere prese in maggior considerazione o aver maggior peso; i cui giudizi o le cui azioni sono più probabilmente costruttivi per la società; o le cui straordinarie abilità o saggezze li rendono più adatti al governo. Alternativamente, il termine elitismo può essere usato per descrivere una situazione nella quale il potere è concentrato nelle mani di un’élite.

Al tempo stesso, Wikipedia in inglese ha una pagina dedicata alla «teoria delle élite» che corrisponde di più a quella italiana sull’elitismo.

La teoria delle élite è una teoria che cerca di descrivere i rapporti di potere nella società moderna. Sostiene che una piccola minoranza, formata da membri dell’élite economica e di apparati politici, detiene gran parte del potere indipendentemente dai processi democratici di uno Stato.

Wikipedia francese (elitismo deriva dal francese élite, che a sua volta deriva dal latino eligere) non ha una pagina dedicata all’elitismo, e affronta i possibili equivoci rimpiazzandola accortamente con la pagina «Elitismo in Francia»:

In Francia l’elitismo è l’attitudine a favorire la formazione di un’élite e l’accesso degli individui giudicati migliori ai posti di responsabilità. Si tratta in questo senso di un valore repubblicano riassunto in un motto rivoluzionario – «La carriera aperta ai talenti» – in opposizione alla selezione per nascita. Più recentemente ha acquistato una seconda accezione, di senso negativo, che indica la creazione di una distanza – politica o culturale – tra una classe dirigente e coloro che ne sono governati, in spregio alla volontà di una maggioranza.

«Un valore repubblicano», e «rivoluzionario». Più recentemente, ha acquistato una seconda accezione. Chissà se tra cinquant’anni – laddove si mantenesse la tendenza recente – le definizioni di Wikipedia saranno ancora queste, o se la «seconda accezione» avrà prevalso in tutte le lingue. D’ora in poi, per questo libro che cerca di immaginare una rivoluzione possibile, l’elitismo sarà quello dei francesi (quello per cui non ci vuole un grande pennello ma un pennello grande): «l’attitudine a favorire la formazione di un’élite e l’accesso degli individui giudicati migliori ai posti di responsabilità».

Mettiamoci allora d’accordo di chiamare invece «elitarismo» ciò che i critici dell’elitismo imputano all’elitismo: ovvero la tendenza a mantenere il potere all’interno di cerchie immutabili e prive di reali meriti e competenze, che non si possono quindi definire «elette». «Caste» sarebbe una parola adeguata, non fosse stata sputtanata dal recente periodo di qualunquismo demagogico (per quanto il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo che l’ha resa popolare abbia molti meriti e non pecchi di qualunquismo). Oligarchie, forse.

Comunque, staccate tutto questo castello di accezioni dal significato del termine elitismo.
«Antielitismo» è il termine che invece indica l’opposizione all’elitismo in quanto tale: è antielitista chi contesta l’idea che a ruoli di potere e responsabilità debbano accedere persone di qualità superiori e straordinarie. Può sembrare sulle prime impensabile che esista una simile opinione, ma invece prospera per diverse ragioni. Una è la repulsione che presso alcuni suscita l’idea che ci siano persone di qualità superiori rispetto ad altre, repulsione dovuta a un eccesso di «correttezza morale», a un malinteso senso di uguaglianza. Dove l’uguaglianza è soppiantata dall’egualitarismo: invece di chiedere pari diritti e pari opportunità che ogni singolo possa sfruttare per ottenere dei risultati, queste persone chiedono che siano sempre pari anche i risultati.5 Un’altra ragione di adesione all’antielitismo è il meno leale fastidio nei confronti di qualunque élite a cui non si appartenga (le élite sono minoranze, i loro critici maggioranze anche se fingono di no): i sentimenti di invidia, frustrazione, competizione sono umani, e ancora di più lo è la percezione di una superiorità esibita e di una mancanza di umiltà da parte delle élite, per quanto capaci e competenti siano (parlo dopo della nostra difficoltà ad accettare le qualità altrui che non abbiamo, e ancora di più ad accettare «lezioni»). Un’altra spiegazione ancora è un equivoco «antielitarista», a cui sfugge la differenza tra le élite e le caste, soprattutto quando le seconde prevalgono e trascinano nelle loro indegnità tutto e tutti, spingendo a buttare l’acqua pulita assieme ai bambini sporchi (lo so, l’idea che i fallimenti di certe presunte élites non mettano in discussione l’elitismo somiglia molto alla tesi di quelli che dicevano che il fallimento del comunismo si dovesse alla sua mancata realizzazione, mentre il progetto era buono: ma la differenza è invece vistosa, in termini di successi storicamente dimostrati o no). Alcuni commentatori propongono che il contrario dell’elitismo sia il populismo, e si può dire in effetti che il populismo comprenda l’antielitismo. Ma nell’uso del termine populismo c’è anche un forte riferimento ai modi con cui il messaggio politico è trasmesso, principalmente attraverso la demagogia, ovvero l’assecondare (soprattutto a parole) le aspettative dei cittadini per ottenerne consenso, qualunque esse siano. Tanto è vero che oggi nel dibattito politico e giornalistico la parola populismo è usata spesso come sinonimo di demagogia. Ma un’altra accezione importante del termine populismo è quella che si riferisce all’esaltazione del mondo popolare e a tutto ciò che ne viene, in contrapposizione a ciò che è prodotto dalle élite. Quando gli esponenti politici di sinistra che hanno appena denunciato il «populismo» di Silvio Berlusconi dicono che bisogna imparare a recuperare il consenso, stare più a contatto col «territorio» e con la «gente», il loro è ugualmente populismo: che può anche essere una buona cosa (in teoria, in una democrazia, ciò che fa appello alla volontà di una maggioranza potrebbe essere buona cosa) a patto che il popolo sia informato, presupposto della democrazia.

Occhio che questo è lo snodo principale di tutti gli equivoci che si sviluppano intorno alle esaltazioni della democrazia, sincere o strumentali che siano. Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa. Funzionano bene le democrazie in cui i cittadini sono informati correttamente, e male quelle in cui non lo sono. Come diceva Goffredo Parise, «Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra».6 Frequente nel populismo è invece l’appello alla volontà popolare coordinato con un investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini.

Per completezza: spesso in relazione con questi -ismi si parla anche di pluralismo, ovvero della condizione tipica di molte società occidentali moderne in cui il potere non è concentrato ma diffuso in un ampio numero di luoghi e gruppi e comunità. Il pluralismo non è quindi in conflitto con l’elitismo, e anzi ne è complementare, nel senso che ho descritto finora.
Bene, fine della teoria politica enciclopedica. Torniamo ai giornalisti e ai politologi americani che si accorgono del successo popolare di Sarah Palin e dapprima lo trattano come un fenomeno politico e sociale interessante e anche curioso. C’è dentro abbastanza fri
volezza e colore da esserne divertiti e affascinati, e da vendere parecchie copie in più: un’agguerrita giovane e seducente signora, un posto come l’Alaska, e un candidato che sembra piacere alla gente, e divertirne altra. Passata la sbornia, però, ci si comincia a chiedere cosa stia succedendo all’America e le categorie dell’elitismo e dell’antielitismo diventano centrali nella discussione politica sulla campagna elettorale. Mentre da destra la maggior parte dei commentatori soffia sul fuoco della «soccer mom» (le mamme dedicate ai loro figli a tempo pieno, che li accompagnano tra le altre cose agli allenamenti sportivi) in cui molte donne americane si riconoscono e che è rassicurante per molte altre, i meno faziosi si fanno venire dei dubbi. Conor Clarke, sull’«Atlantic Monthly»:

Le familiari qualità di Sarah Palin vengono spacciate come una competenza valida sul piano elettorale e di governo: come ha scritto Bill Kristol sul «New York Times» dicendo che la scelta di una «mamma da supermercato» è stata accolta da molti elettori con un «era ora». Lo snobismo al contrario è il nuovo snobismo: e l’arma per vincere le elezioni e governare un paese è fingere di essere più qualsiasi possibile.

Mitch Albom, versatile scrittore e giornalista, sul quotidiano di Detroit:

State a sentire, c’è un motivo per cui chiamiamo «l’uomo medio» così. Perché è medio. Qualunque. Se vuoi andare alla Casa Bianca, guidare il mondo libero, tenere le sorti della Terra nelle tue mani, non dovresti cercare di essere qualunque.

Thomas Friedman, il re degli opinionisti equilibrati, sul «New York Times»:

Per favore, non votate per il candidato con cui berreste volentieri una birra (a meno che non vogliate sbronzarvi abbastanza da dimenticare il casino in cui ci siamo messi). Votate per quello che vorreste avere accanto quando dovrete chiedere alla banca un’estensione del mutuo.

A ottobre il pezzo di copertina di «Newsweek» su Sarah Palin è di Jon Meacham:

Vogliamo dei leader che siano persone comuni, o vogliamo dei leader che capiscano le persone comuni? C’è una differenza enorme.

Infine David Brooks, columnist conservatore, ancora sul «New York Times»:

Il fastidio per gli intellettuali di sinistra è diventato un fastidio per le classi istruite nel loro complesso. I liberal avevano questo atteggiamento di superiorità, così i conservatori hanno sviluppato il loro antielitismo, con simmetrici luoghi comuni e simmetrici risentimenti, ma con lo stesso effetto velenoso.

Come sappiamo, John McCain ha poi perso le elezioni. C’è stata una lunga discussione sulla possibilità che il colpo Sarah Palin avesse rinculato, allontanando molti elettori più attenti ed esigenti dalla sua faciloneria: ipotesi incoraggiante che lascia sperare – se fosse davvero andata così – che l’antielitismo non avesse ancora spappolato l’America: ma solo un anno dopo, con Obama in crisi di fiato ed entusiasmi, la riapparizione di Sarah Palin e di un suo nuovo libro ha ricompattato e rieccitato i suoi sostenitori e il confronto politico. Nel 2010, alla vigilia delle elezioni di metà mandato, lo scontro era tornato di nuovo accesissimo e i commentatori politici analizzavano l’epiteto più usato dalle destre – i nuovi «Tea Parties» ma non solo – per accusare i liberal ma anche alcuni repubblicani non sufficientemente «qualunque»: elitista! Jacob Weisberg spiegava su «Newsweek» il paradosso per cui Carly Fiorina, candidata repubblicana ed ex amministratore delegato della Hewlett-Packard, si definiva «vittima dell’elitismo», e ricordava come John McCain avesse accusato di elitismo Barack Obama dimenticando di essere un milionario figlio e nipote di ammiragli che si rivolgeva a un figlio nero di ragazza madre che si era pagato da solo gli studi. In un altro articolo (sul «New York Observer»), Lee Siegel analizzava l’avvenuta identificazione delle élite sulla base di qualità culturali e non più politiche o sociali: un’invenzione della destra che aveva preso atto del potere della cultura e dell’informazione e invece che cercare di impossessarsene aveva scelto di demonizzarlo, complici le spocchie e le contraddizioni della sinistra.

La discussione prosegue tuttora e sarà centrale negli anni futuri: in Italia tarda a venire canonizzata e studiata,7 ma di fatto esiste già. E gioca moltissimo sul doppio e diverso significato attribuito al termine «cultura»: parola che usiamo per riferirci sia a quello che siamo e siamo sempre stati che a quello che invece potremmo imparare e che saremo.
Nel 2008 alla fine – per molti diversi motivi – gli americani hanno eletto presidente un senatore che tutto sembra fuorché uno qualsiasi, e nessuno ricordava di averlo incontrato al supermercato. Per ora, l’America ha ancora una classe politica che è una classe politica: senza essere troppo chiusa al ricambio – come la storia di Obama dimostra – ma si tratta di un ricambio che avviene ancora prevalentemente sulla base di criteri elitisti, non sostituendo colti esperti di governo con meteore del successo televisivo, brave persone trovate per strada, portieri del Milan o magistrati resi popolari dal curriculum di arresti procurati.

1 Egli qui mi rispose, poi.
2 Negli stessi giorni uscì in Italia il libro di Enrico Brizzi
La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio (Laterza 2010), che ospitava a proposito degli anni Ottanta la seguente simile ed esauriente considerazione: «Un’epoca in cui sembrare intelligenti era ancora di moda».
3 Come se a Sanremo si giocassero la vittoria Jovanotti e Mino Reitano, ma Mino Reitano si presenta in duetto con Belèn Rodriguez e Jovanotti con Iva Zanicchi.
4 «Quando si tratta di politica, questo paese adora follemente la mediocrità. “Pensano di essere migliori di te” è l’accusa che cinici e incompetenti strateghi repubblicani diffondono tra la gente, e la gente se ne ubriaca. “Sarah Palin invece è una persona qualsiasi!” Certo: ma troppo qualsiasi. La prossima amministrazione dovrà affrontare immediatamente questioni come la proliferazione nucleare, guerre in corso in Iraq e Afghanistan (e altre guerre sotterranee altrove), il riscaldamento globale, l’aggressività russa, il boom della Cina, epidemie minacciate, l’islamismo su molti fronti, la scomparsa delle Nazioni unite, la crisi del sistema scolastico americano, la crisi energetica, internet e le sue infrastrutture e sicurezza la lista è lunga e Sarah Palin non sembra in grado nemmeno di mettere questi temi in ordine di importanza, figuriamoci occuparsene» (Sam Harris, When atheists attack, «Newsweek», 9 settembre 2008).
5 «La democrazia impone che tutti i cittadini comincino la gara nelle stesse condizioni, l’egualitarismo pretende che nelle stesse condizioni la finiscano» (Roger Price, citato in Class, di Paul Fussell).
6 Ho trovato la citazione in Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?, di Antonio Pascale, cit.
7 Anche per pavidità linguistiche e malintese correttezze politiche, come vedremo. 

 

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4 commenti su “Populismo, elitismo, e Sarah Palin

  1. alearmando

    Carissimo Sofri,
    nonostante 28.200 battute per un post siano davvero troppe, sono arrivato al fondo perché è un tema importantissimo a mio giudizio e di cui si discute troppo poco. A seconda della risposta che diamo alla domanda “l’elitismo (buono) ci piace o no?” dobbiamo fare una battaglia politica o farne un’altra tutta diversa.
    Assumo la tua analisi e la definizione di elitismo “buono”, quello che fa sì che Obama divenga presidente, per intenderci (peraltro l’approccio comparativo da Wikipedia è degno del miglior Fuffas, esempio sicuramente non elitista, non volermene). Per me resta aperto un doppio problema: la sovranità democratica e il problema del migliore dei mondi possibili.
    1. La sovranità in democrazia, da Rousseau in poi, è divisa (teoricamente ovvio) in parti uguali tra tutti i cittadini. In parti uguali: cioè non c’è più il sovrano-Re-Sole, ma tutti sono azionisti politici di quel corpo Reale, un N-esimo a testa. Questo è Rousseau, non Marx, né Mao. Quindi ognuno dovrebbe avere ugual peso nel poter decidere CHI deve governare. E questo oggi non accade, perché quando votiamo schiacciamo l’interruttore di un grande Pachinko politico, che va a far cadere le palline-candidati nei buchi-poltrone. Ora, molti anche a sinistra dicono: “meglio così che far scegliere all’uomo della strada”. Che fa il paio con una adagio che dice spesso anche mia mamma (che è di sinistra): “Ci vorrebbe l’esame di educazione civica per concedere il diritto di voto”. Come la patente.
    2. Arrivo al migliore dei mondi possibili: chi ha studiato educazione civica è un buon elettore? CHI ha studiato? CHI è “informato”? E qui per quel che riguarda gli elettori attivi. E per i passivi (…) ? Tu dici che chi possiede “qualità e talenti eccezionali” dovrebbe essere “promosso”. Ma da chi, se l’uomo della strada non è … informato? MA soprattutto: mi sapresti mica dare il metro delle qualità e dei talenti? Facciamo una giuria di saggi? Chiamiamo una delegazione del premio Nobel? (Magari: si lascerà fare a Veltroni e D’Alema).
    Il problema, caro Sofri, temo che sia un altro: la democrazia, da Rousseau in poi, è convenzionalista. Ti risparmio la tiritera sulle sottigliezze che distinguono il convenzionalismo dal relativismo, ma in sostanza potremmo dire che i convenzionalisti la “verità” se la creano, a un certo punto, mentre i relativisti no. Il migliore dei mondi possibili va negoziato con “tutti” (Bruno Latour dice che dovremmo negoziarlo persino con le balene). Prima della negoziazione, nessuno sa qual è questo mondo migliore, nessuno può guidare gli altri per davvero.
    Se continuiamo a pensare che qualcuno sia “davvero” più bravo a priori, per genio, per talento, “oggettivamente”, manderemo sempre in corto circuito la democrazia.

    In postilla: ti consiglio un bel libro (ai tuoi lettori per lo meno, tu lo conoscerai sicuramente) che parla del populismo in senso buono, e dell’elitismo come malinteso di una cultura accademica negli USA. Cristopher Lasch, La ribellione delle élites, Feltrinelli.

    ciao e grazie dello spunto

  2. bobryder

    Da noi(Carfagna, Gelmini e dulcis in fundo Santanchè, solo per citare le più in vista)persone(ho nominato donne ma potrei allaragare il concetto a individui di sesso maschile)incompetenti come la Palin hanno occupato scranni e dicasteri.Il punto che il post non prende quasi in esame è che l’elitismo in una democrazia fatta in tv e, secondariamente, sul web ha sponde improponibili, per dirla tutta: uno come Vendola che parla difficile, pur con concetti riformatori,non diventerà mai premier.In questo un Renzi è certo più avveduto.Ma torniamo alla Sarah Palin(io prefrisco Lisa Ann,informarsi per credere:)) : in Italia se fosse stata sconfitta,una così,lo sarebbe stata perchè donna,non perchè(etimologicamente) ignorante.Ma quando mai da noi un uomo di colore(anche il più istruito e capace, come è Obama, e ce ne sono a iosa perfino da noi-il perfino è legato allo stato di degrado della culturae istruzione italiota)ecco, quando mai da noi un “clone” di Obama,un uomo capace ma non comune, vincerebbe mai.La grande confusione nei discorsi su politica ed elite è quello di non capire che per governare ci vogliono persone capaci,oltre la media, perciò speciali,oneste e-qui sta l’equivoco-che abbiano però un’anima(un’interiorità, direi) popolare, che li porti a fare scelte coraggiose per i più, che naturalmente non compromettano le sorti del paese, ma anzi lo vivifichino.Obama, e non Sarah Palin o Mc Cain, c’è riusciot, anche se non ha fatto tutto perfettamente, ma decentemente si e in linea con le promesse lettorali.Ne dobbiamo mangiare ancora di pane, e ancor più di bruscolini.Siamo realisti: un giornale(forse il n.y.times) scrisse che la corsa presidenziale(a proposito della candidatura di Sarah Palin)non era “american talent”:quanti giornali o tg (di prima fila)hanno scritto ciò(o scriveranno ciò) su Carfagna e Santanchè?Minoranze.Confondendo l’elitismo con la classica “puzza sotto al naso” (e facendo così il gioco della destra),o semplicemente schierandosi dietro convenienze e connivenze(banche e vaticano) che nulla hanno a che fare con la Politica.Negli stati uniti le “sexy segretarie”(in senso lato) fanno questo,non quella(la Politica). http://www.youtube.com/watch?v=-JLXZ7e3OFA.
    Un sosia della politica americana(sponda democratica),questo il nostro paese non riesce ad essere.

  3. deloop

    l’amico è per caso un siciliano con tendenza bastiancontrario, iniziali C.R. ?
    e comunque… sì, anch’io preferisco Lisa Ann (a proposito di cultura pop/trash)

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