Come se sapessimo

C’è una riflessione interessante e molto vera di Karl Taro Greenfeld sul New York Times, un pezzo uscito domenica. Spiega una cosa che è familiare a tutti, l’attitudine a crearsi delle opinioni e sentirsi e dirsi informati a partire da quel che leggiamo sui social network, senza aver davvero letto visto le cose di cui si parla: libri, articoli, film, puntate di serie tv, notizie stesse. Basiamo la nostra conoscenza delle cose su tweet e post di Facebook che riferiscono o commentano quelle cose, e l’autore dice di aver partecipato a conversazioni sul video di Solange Knowles senza averlo visto, sul nuovo Papa senza averlo mai sentito parlare, su libri che non ha letto, eccetera. Non per impostura, ma perché i commenti relativi a quelle cose hanno sostituito le cose. E per esempio, già da tempo su Twitter anche qui si è constatato come si possano seguire dei programmi televisivi senza guardarli, solo leggendo i tweet (io so tutto di Ballarò, dell’altra sera, ma avevo la tv spenta: o almeno penso di sapere tutto).

Fingere di sapere tanto senza davvero sapere niente non è mai stato facile come oggi. Viviamo una pressione costante sul saperne a sufficienza, in ogni momento, per paura che si riveli la nostra ignoranza. Per poter sopravvivere a un viaggio in ascensore, a una riunione di lavoro, a una sosta alla macchina del caffè, a un aperitivo, per poter postare, chattare, commentare, messaggiare, come se avessimo visto, letto, ascoltato. Quello a cui teniamo, sommersi da petabyte di dati, non è necessariamente avere consumato in prima persona questi contenuti ma soltanto sapere che esistono, e averne un’opinione, essere in grado di partecipare alla conversazione su di essi. Ci avviciniamo pericolosamente a costruire un pastiche di conoscenza che è in effetti un nuovo modello di ignoranza.

Greenfeld racconta la divertente storia del pesce d’aprile del sito di NPR, che ha pubblicato un articolo intitolato “Perché gli americani non leggono più?“: il testo, per chi cliccava sul link, spiegava che era uno scherzo perché “abbiamo spesso la sensazione che alcuni commentatori parlino dei nostri articoli senza averli letti”. E in effetti sui social network il tema del titolo è stato assai discusso, contestato, commentato: con risposte indignate di “lettori” che dicevano “non è vero, io leggo”, e altre che lo condividevano consigliando “leggete questo articolo”.
Secondo una ricerca, 6 americani su 10 leggono solo il titolo di un articolo (questo tra l’altro genera tutta una questione accessoria sulla confezione dei titoli e la loro aderenza al contenuto, questione in Italia rilevantissima). E come segnala un esperto di traffico online, e come sa chiunque si occupi di contenuti online, la relazione tra condivisioni ed effettive fruizioni di un contenuto è spesso assai vaga. Si condivide in gran parte dei casi un titolo o un tweet, piuttosto che un effettivo contenuto di quel link.

Ogni volta che qualcuno, in qualunque contesto, cita qualcosa, dobbiamo fingere di saperne qualcosa. Le informazioni sono diventate la nostra moneta (e letteralmente nel caso di Bitcoin, un tipico esempio di qualcosa di cui tutti parlano ma nessuno sembra aver capito cosa sia).

Il nostro canone culturale sta diventando definito da cosa riceve il maggior numero di click.
Chi decide cosa sappiamo, che opinioni abbiamo, che idee stiamo riproponendo come nostre? Apparentemente, algoritmi, strumenti matematici complessi su cui Google, Facebook, Twitter si basano per determinare quello che leggiamo, vediamo, compriamo.

Gli scambi di opinioni, quindi, dice Greenfeld, sono diventate in sostanza il confronto delle rispettive timeline. E le opinioni che abbiamo – che ovviamente sono sempre derivate da idee di altri, letture, raccolta e confronto di informazioni – non sappiamo più da dove vengono. Abbiamo letto qualcosa, ne abbiamo sentito parlare. “Mi è passato davanti”, dico io frequentemente: formula contemporanea propria di tutto questo. Un grande ritorno di attualità del Bignami: non ho letto la cosa vera, dei brandelli messi insieme da qualcuno. Non so neanche cosa ci sia sulla copertina, come col Bignami (a meno che qualcuno abbia twittato sulla copertina).

Così eccoci qui, che remiamo disperatamente in questa inondazione di informazione, facendo commenti su meme di cultura pop, perché ammettere di essere rimasti indietro, che non sappiamo di cosa stanno parlando tutti, che non abbiamo niente da dire su ogni notifica che passa sullo schermo, è come essere morti.

A completamento e condivisione, una cosa scritta qui cinque anni fa.

In questi anni di maggior accesso per tutti alle possibilità di affermazione pubblica di sé, e di più dura competizione per ottenerla, si sono date man forte due attitudini che hanno esaltato e accresciuto le nostre vanità. Una è l’uso del sapere e delle informazioni – in vari modi e contesti – per guadagnare credibilità, farsi notare, ottenere riconoscimento pubblico e illusioni di piccoli successi. In molti modi e in diverse misure ci infiliamo quasi tutti, ogni giorno, nella parte di quello che sa una cosa, che la dice per primo, che l’aveva notata per primo, che non si fa fregare da quel che credono tutti o che si dice in giro. Saperla lunga è diventato un modo per «esistere», per relazionarsi con gli altri, per competere, e per vincere. Forse siamo già a una tappa successiva, in cui l’esibizione di sapere è un tic incontrollabile che sbaraglia persino il timore di farsi invece malvolere e disistimare a causa di quell’esibizione. Non riusciamo a trattenerci. Pensiamo che l’umiltà sia diventata troppo invisibile nel casino generale per poter essere notata e diventare notevole: e quindi ci sentiamo costretti a esibire noi stessi, perché altrimenti tutta la nostra sapienza e le nostre qualità non le noterebbe nessuno.

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8 commenti su “Come se sapessimo

  1. rodo

    Se si vuole andare tanto a fondo del senso delle parole che si dicono o si scrivono, si deve saper godere dei paradossi della logica. Ed a questo punto un argomento vale l’altro: il reale, la vita di tutti i giorni, le polemiche e la politica, valgono nulla.

  2. Raffaele Birlini

    Era così anche prima di internet. Per esempio ho appena sentito alla radio – una radio privata, una trasmissione che vuole intrettenere con umorismo, non una stazione pubblica che si propone di (ri)educare il popolo – l’intervento di un ascoltatore che ha tirato fuori Pertini perché il tema di oggi (non chiedermi perché, ero in macchina, son quelle cose che ascolti con la stessa attenzione che presti a sorrenti e renato zero in sottofondo al supermercato) era ricordare i defunti.

    Il nostro moderno cittadino esemplare diceva per telefono di non sapere nulla di significativo su Pertini ma che pensare a lui è come se pensare a un familiare. Che è un po’ come sentirsi amico fraterno di un personaggio famoso. Ha detto di essere stato una volta a un suo comizio ma che era troppo piccolo per capirlo. Che è un po’ come dire di essere andato al concerto di uno famoso anche se non hai idea di che musica fosse. Ha detto che quel che si ricorda di Pertini è che era molto amato da tutti, che faceva sentire le persone come parte di una grande famiglia. Che è un po’ come dire ciò che conta è solo la campagna marketing, la costruzione del personaggio, la stampa favorevole, tutto ciò che passa senza incontrare il vaglio del senso critico, arriva al pubblico mediante contagio di opinione favorita da una epidemia informativa basta sui sentimenti. Un rito religioso che va da woodstock alle primarie, dall’ultima tragedia in diretta a nuovo prodotto di culto.

    C’è sempre stata la superficialità, sono sempre esistite le masse belanti, l’umanità è composta in gran parete di mediocri (senza offesa, nel senso di persone nella media, e la media non è granché, ne ieri né ora né mai, e l’idea che si possa alzare la media con la politica fa così ideologia del secolo scorso che non so se fa più ridere o più spavento). Anche con giornali e tv si verificava lo sfruttamento dei sentimenti, titoli a effetto, notizie false con rettifica in piccolo nelle pagine interne. La gente leggeva i titoli dei quitidiani legati al partito scelto fin da piccoli come si fa con la squadra del pallone per cui tifare, alla tv guardava il tg del canale più vicino alla sua chiesa politica. Ora salta fuori che con internet la gente è diventata sbrigativa e superficiale? Vabbè, signora mia, le mezze stagioni.

  3. Alan Cowan

    Come godo. Questo fenomenale acceleratore di idiozia che è la rete si sta sobbarcando quasi tutto il lavoro sporco.

  4. aciribiceci

    Credo che tutto questo abbia anche molto a che vedere con la vita breve che hanno i libri in questo momento: un mese PRIMA che esca un novità, girano recensioni, interviste, critiche, sunti e varie altre forme di promozione che tolgono ogni curiosità rispetto al contenuto della novità in uscita. Insomma, spesso ho la sensazione di aver letto un libro ben prima che sia uscito: la promozione che se ne fa, concepita per stuzzicare l’appetito, finisce per esaurirlo, un po’ come succede con gli aperitivi rinforzati, finisce che ci fai cena. Ovviamente, leggere un libro è molto diverso dal sentirne parlare, ma la curiosità è uno dei motori dell’interesse: a volte un bel titolo invogliava a leggere proprio per l’alone di ignoto che si lasciava dietro. Su kindle si possono scaricare degli estratti, e questa secondo me è la miglior forma di promozione: tutto il martellamento andrebbe molto ridimensionato, o quantomeno rinviato a quando il libro (o l’articolo, o il contenuto quale che sia) sia già stato letto dai lettori, non prima. Altrimenti, come sembra stia accadendo, le pubblicazioni godranno di vita sempre più effimera e a farne le spese potrebbero essere quei contenuti che invece sarebbero per loro natura destinati a durare.

  5. paolo

    Tutto molto condivisibile ,e anche molto ovvio e, proprio per fare il polemico, tardivo. Il sapere, quello vero, costa. Costa studio, spremersi il cervello, rimuginare sulle cose. Andare avanti, fare qualche passetto indietro, e poi avanti ancora…. Il sapere bisogna costruirselo. Twitter non è il sapere. Twitter è un modo di comunicare. E’ il telegramma moderno. Ma il telegramma serve per dire “arrivo tardi”. Non per comunicare programmi politici. Un blog non è un sapere. Questa sala da barbierie mondiale che il blog, questo Bar Sport universale, questo chiacchiericcio planetario, non è il sapere. E’ una parvenze di sapere, e, in quanto tale, ne è il più delle volte la negazione.

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