Lascio a più Eruditi Teorici Novecenteschi le valutazioni sui principi e le civiltà salvate dalla sentenza della corte Europea nei confronti di Google sul cosiddetto “diritto all’oblio”. Segnalo solo un altro paio di complicazioni pratiche oltre a quelle di cui anche gli ETN si stanno accorgendo nelle pause dell’entusiasmo per la decisione di Google di obbedire a quella sentenza costruendo un “modulo di rimozione da Google” (decisione che interpreto come una esibizione di buona volontà). Ricordo anche a titolisti e sventurati lettori che non è in discussione “cancellarsi dal web”, “sparire dal web”, eccetera: questa applicazione “ad motorem” del diritto all’oblio – per non raccontarsi di essere diventata una censura sull’informazione – prevede che niente sia cancellato da internet, ma solo che le pagine contestate non appaiano alle ricerche su Google (un po’ come vietare alle edicole di vendere un giornale, ma permetterne la stampa).
Che tutto questo riguardi solo Google – malgrado sia senz’altro peculiare e di fatto quasi monopolistica la posizione di Google – crea (tra le altre) una strana contraddizione: io potrò trovare quegli articoli con una ricerca su Bing? O su Yahoo? E potrò trovarli con una ricerca sui motori interni dei singoli siti? Se Google accetta che sia giusto “dimenticare” un articolo del New York Times che mi riguarda, e farlo sparire dai risultati delle ricerche, quell’articolo apparirà invece tranquillamente a chiunque lo cerchi sul sito del New York Times? Che differenza c’è tra le due ricerche, rispetto al mio diritto all’oblìo?
Inoltre: è ovvio immaginare che qualunque articolo contestato contenga molte e diverse informazioni. Diciamo che io in quel processo di tanti anni fa fui assolto, e a nessuno interessa di me, e non voglio che se ne sappia; o che io non voglio che compaia più la notizia di quando a diciott’anni mi buttai per scherzo insieme al mio cane nella vasca dei delfini dell’acquario di Genova; o che non voglio che nessuno trovi quella lettera che scrissi a un giornale in un momento di follia per chiedere che mi trovassero una fidanzata; e diciamo che ottengo che Google non indicizzi più quelle pagine che non compariranno alle ricerche. La conseguenza sarà che qualunque giornalista, studioso, interessato, non troverà più l’articolo sul processo – che raccontava molte altre cose rilevanti -, né la descrizione dell’acquario e delle sue vicende in una guida turistica, né la pagina delle lettere al giornale di quel giorno.
Come funziona l’oblìo selettivo? Si può far dimenticare qualcosa, conservando alla memoria e all’informazione tutto il resto? Di certo non può Google, che riferisce agli elementi-pagina, e non può isolarne i contenuti: e quindi quei risultati dovrebbero sparire solo dalle ricerche che riguardino il nome dell’interessato, ma non dalle altre. Con un risultato di oblìo a macchia di leopardo: chi cerchi il mio nome non saprà di quella fesseria in piscina, ma chiunque cerchi “acquario di Genova” sì. Bisognerebbe proprio togliere quell’aneddoto dalla guida, come si cancellavano le persone dalle foto, in certi regimi dittatoriali.
Ma non si può, siamo società libere e rispettose del diritto all’informazione, e lo tuteliamo. È solo che ai tempi di internet non si può più fare coi metri e le semplicità di prima: e invece facciamo come se, e facciamo casini.
Premettendo che il discorso del diritto all’oblio è lungo e complesso, dal punto di vista giuridico, sociale e dell’informazione, quello che sta succedendo nelle ultime due settimane, dal giorno della sentenza in poi, sembra aver assunto le vesti di una vera e propria crociata.
Dal punto di vista prettamente giuridico, la sentenza è praticamente inattaccabile, frutto dell’interpretazione letterale della norma e la sua ratio, quella di tutelare gli utenti. Sofismi giuridici, d’accordo, ma l’interpretazione della norma da quel che so è la base per la decisione di una causa. Si può parlare tanto delle conseguenze che ha, dei suoi rischi e delle controindicazioni e via dicendo, ma la Corte, trovandosi di fronte una chiara violazione di un diritto, applica la norma per interromperla.
Le motivazioni della Corte sono abbastanza chiare, il tipo di trattamento dati che fa un motore di ricerca ha uno scopo diverso rispetto a quello di un giornale online come il suo. Nel secondo caso quindi l’informazione potrebbe non essere removibile perché protetta dal sacrosanto diritto all’informazione. Nel primo caso invece, notato dalla Corte il ruolo preminente del motore di ricerca nella diffusione delle informazioni, lo scopo non è quello giornalistico, ma quello di raccogliere le informazioni delle ricerche, appropriarsene e lucrarci. Due scopi ben diversi, no? Per questo motivo, se in futuro voglio andare a riprendere una ricerca, aprirò il sito del giornale online e farò una ricerca manuale sull’informazione vecchia e obsoleta, ma che improvvisamente ho una gran voglia di leggere. La stessa cosa pressappoco che si faceva prima di internet, quando se volevo recuperare una vecchia informazione, andavo in un archivio e chiedevo. Le due cose sono molto diverse. Una ricerca su Google può essere casuale e comporta una diffusione di informazioni (lesive) in modo anche casuale (sarebbe da aprire la parentesi sulle funzioni di autocompletamento e ricerche correlate), senza essere protetta da interessi pubblici preminenti. Una ricerca manuale nell’archivio online di un giornale, è protetta in modo sacrosanto dall’informazione, ricerca storica o scientifica e quant’altro, ma devo essere io consapevolmente ad andare a cercare quelle informazioni.
Inoltre, i Suoi dubbi circa l’applicabilità della sentenza agli altri motori di ricerca non dovrebbero nemmeno esserci: la sentenza parla di motori di ricerca in generale, ovviamente, ma costringe solamente Google ad adeguarvisi perché il ricorso è stato fatto solo contro Google (il nome della causa era Google Spain, Google Inc. V. AEPD, non a caso). Probabilmente tra non molto si adegueranno anche gli altri, prevedendo lo stesso tipo di modulo o una procedura parificata, ma non si può mai dire.
Ripeto, il diritto all’oblio online è una questione molto nuova per tutti, dopo 10 mesi di ricerche anche io faccio ancora fatica a localizzarlo con precisione. Mi rendo benissimo conto che sia un sistema imperfetto, a dir poco, e la tutela offerta dalla possibilità di richiedere il no-index è una goccia nel mare, per molti inutile, per altri sproporzionata, per altri ancora un attacco alla libertà d’informazione, ma è un punto di partenza, un’apripista a quello che sarà il nuovo regolamento europeo in materia di trattamento dati. Da qualche parte dovremo pur iniziare per riprendere il controllo sulle nostre informazioni personali, senza lasciarle alla mercé di una serie di monopolisti, no?
Che io mi sia buttato in una vasca dell’acquario col cane non è informazione, è pettegolezzo da rivista scandalistica. Se, per fare in modo che un giornalistucolo non possa risalire a quelle cose con estrema facilità e usarle vent’anni dopo per screditare quella che magari è una persona completamente diversa, il prezzo da pagare è rinunciare a uno dei millemila milioni di articoli sul’Acquario di Genova, penso di potermene fare una ragione senza tanti patemi d’animo. Tanto se davvero ti interessa qualcosa la trovi comunque, almeno così si taglia fuori una discreta fetta di imbecilli ai quali dell’Acquario non frega niente, ma di me e del cane sì.
Finitela di calarvi le braghe in questo modo davanti a “LA RETE” (“ooooohhhhhh”). Siete grotteschi.
Eruditi Teorici Novecenteschi sarebbe la Sua versione di “professoroni”?
Comunque la tutela dei dati personali e della privacy a livello europeo è caratterizzata da una costante evoluzione. Il trattato di Lisbona del 2007 ha dato una forte spinta in materia mettendo più in chiaro il diritto alla difesa della privacy e dei dati personali nelle nuove tecnologie. Più di altre normative però, visto anche che ha un proprio centro di spinta a livello europeo più che a livello nazionale, ci vorrà tempo per assestare bene il colpo. Ma questa rimane una sentenza perfettamente in linea con il pensiero liberale fondativo dell’UE, che non funziona ad intermittenza, e spero non incominci. Se c’è scontro tra diritto all’informazione e quello alla privacy evidentemente si arriva ad un compromesso, che potrebbe essere quello di difendere in primis il diritto all’informazione finché non viola una privacy tutelata, e quindi lasciare l’articolo dov’è ma renderlo irraggiungibile da uno che cerca a caso informazioni su una persona, senza sapere dove andare a cercare.
Poi si può dire che il sapere tutto di tutti fa parte del diritto all’informazione, e del resto la linea de IlPost sul caso NSA è stata lampante, ma questa sarebbe una posizione da motivare meglio. Ridurre a “non ci capiscono niente della modernità” mi sembra francamente, e semplicemente, una grillinata.
Ma se questo provvedimento riguarda Google, cosa si farà per i database di Bing, Yahoo e altri motori di ricerca?
Abbiamo un tasso di disoccupazione folle e ci occupiamo di un problema privacy utile quando torna di comodo.
Ma un diritto all’oblio per questi governanti da quattro soldi mai?