La condanna dell’alternanza

Ogni volta che c’è un importante risultato elettorale che ribalta un rapporto di forze esistente – come ieri col parlamento americano – i media si dedicano alla ricerca di una tendenza più estesa con cui fare i titoli e intorno a cui discutere: l’avanzata delle sinistre, il ritorno delle destre, la ventata progressista, l’ondata moderata, eccetera. Lo sforzo è abbastanza privo di senso: i nostri tempi vedono infatti da decenni la prevalenza di contesti e situazioni nazionali a influenzare i risultati elettorali, e non di sviluppi o fenomeni globali. Che ogni tanto alcune situazioni si allineino nei risultati è quasi sempre frutto del caso (basta guardare il recente tentativo di disegnare un fenomeno europeo di sinistra a partire da tre leader, dalla loro età e dalla loro camicia: quanto ai risultati, uno va forte al governo in Italia, uno è una fragile speranza all’opposizione in Spagna, e uno è una questione complicata e precaria al governo in Francia).

C’è invece, mi pare, un fattore che sta diventando sempre più comune alle occasioni elettorali dei paesi occidentali, e che costituisce quello sì una tendenza: chi è maggioranza perde consensi, quindi perde le elezioni e diventa minoranza. Niente di nuovo, direte voi, il potere logora: ma l’applicazione di questa regola sta diventando sempre più frequente e prevalente. Ed è un’evoluzione interessante, perché implica una sempre maggiore impossibilità di mantenere o ottenere il consenso nel momento in cui hai il potere di fare le cose. E questo a sua volta ha due ragioni attualissime e mai così opprimenti: uno, la sempre maggiore impossibilità di fare le cose, nei nostri sistemi democratici burocratici e partigiani; due, le aspettative e le richieste sempre più alte ed esigenti da parte degli elettori.

La sintesi estrema di tutto questo è il seguente percorso: un partito o coalizione vince le elezioni, governa, riesce a combinare molto meno di quello che ha promesso per vincere, la gente si arrabbia perché voleva addirittura molto più di quello che aveva promesso, e alle elezioni dopo vota gli altri. E così via: nei casi in cui l’opposizione sia particolarmente inetta possono volerci un paio di turni.

La variabile rispetto a questa struttura è data dall’usura – lenta, ma arriva – della pazienza della gente per il meccanismo e il rimbalzare dei tentativi, che a un certo punto genera l’illusoria soluzione della vittoria del “partito nuovo”. Che va al governo, e riparte il meccanismo (per questo il M5S ha inventato una sua originale ma saggia soluzione autoconservativa).

Poi certo, ci sono fallimenti più plateali e indiscutibili, e altri più ambigui e parzialmente perdonabili. Ma la grande questione delle democrazie “mature” oggi è che è diventato impossibile to succeed: nessun grande paese occidentale ha avuto negli ultimi decenni dei leader o delle maggioranze i cui successi siano estesamente condivisi (forse con parziale eccezione di Angela Merkel, soprattutto per le fortune economiche tedesche di cui ha meriti tutti da valutare e chissà per quanto).

E siccome di democrazie reali parliamo, riducendo questa analisi si arriva alla conclusione che non siamo in grado, come collettività e forse anche come individui, di soddisfare le nostre esigenze: abbiamo alzato l’asticella fino a un punto dove non sappiamo saltare, e tolto il materasso.
Non siamo all’altezza delle nostre aspettative.

Abbonati al

Dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo.

E dal 2010 il Post ha fatto molte cose ma vuole farne ancora, e di nuove.
Puoi darci una mano abbonandoti ai servizi tutti per te del Post. Per cominciare: la famosa newsletter quotidiana, il sito senza banner pubblicitari, la libertà di commentare gli articoli.

È un modo per aiutare, è un modo per avere ancora di più dal Post. È un modo per esserci, quando ci si conta.

Abbonamento mensile
8 euro
Abbonamento annuale
80 euro

3 commenti su “La condanna dell’alternanza

  1. wolf44

    Forse il marketing politico, sempre più simile a quello pubblicitario ove non addirittura coincidente, ha alzato troppo l’asticella? Ormai in campagna elettorale si sente di tutto di più e le promesse sono in partenza irraggiungibili. Lo yogurt che elimina il colesterolo è un po la stessa cosa: poi quando andiamo in ospedale infartuati scopriamo che non era vero….

  2. lucapareschi

    Condivido il punto principale dell’analisi, ma alcuni assunti sono un po’ deboli. In particolare “i nostri tempi vedono infatti da decenni la prevalenza di contesti e situazioni nazionali a influenzare i risultati elettorali, e non di sviluppi o fenomeni globali”: al contrario posso citare l’ondata neoliberista iniziata a Chicago con Milton Friedman, che ha portato a vincere, tagliando corto, le elezioni a diversi partiti che hanno fatto delle privatizzazioni parte integrante del loro programma. E questo è successo in America del Sud (Argentina), Europa (UK), etc.. L’influenza dei contesti istituzionali sovranazionali sui contesti locali è provata dalla letteratura sociopolitica. Altri esempi: il new labour, l’euroscetticismo, forse, ora. Poi, se si parla di “ultimi decenni”, più d’un leader mi viene in mente che sia rimasto al potere a lungo, prima di cadere: la thatcher, su tutti.

Commenti chiusi