Punti critici

Qualche settimana fa sul sito del New York Times c’erano delle interessanti riflessioni sul ruolo e sul senso dei “critici” letterari, nel 2015: tema su cui si potrebbe e dovrebbe scrivere molto, mi appunto solo alcune cose.
La “critica” in quel senso austero e illuminato che le si dava una volta negli ambienti culturali, accademici ed editoriali italiani, non esiste più: e se esiste è diventata invisibile. Quello che visibilmente la sostituisce è rispettivamente:
– articoli in cui giornalisti o scrittori parlano di libri che hanno letto come lo faremmo io o voi – quindi scrivendo più o meno bene – e che chiamiamo “recensioni”. Di solito – non sempre – ne è trasparente il desiderio di parlare di sè o di condividere un parere proprio, più che di far capire cosa è un libro. Raramente ci sono ragioni condivise per dare valore a quel giudizio piuttosto che a un altro. A volte per fortuna ci sono invece considerazioni e intuizioni brillanti e inaspettate sul contenuto del libro.
– articoli in cui il giudizio dell’autore occupa quasi tutto lo spazio, in un ingenuo e palese equivoco che suggerisce che più vistosi, energici e vacui sono i giudizi (“il romanzo dell’anno” come “un libro da due in pagella”) più il “critico” è autorevole.
Dice Adam Kirsch sul New York Times.

If I were conducting a branding campaign for criticism, the first thing I would recommend is a new name. Just about no one has a good feeling about the word “criticism.” Most of the time, it simply means chastisement; it sounds like what you don’t want to get on your performance review, or from your parents. If you have a critic, that person is likely to be your enemy, and to be critical means to be ill disposed, hard to please or actively hostile — in short, a hater. When it comes to the arts, for many people a critic is someone whose job it is to tell you why you’re wrong to like the movies or music or books you like.

E più avanti Charles McGrath.

It’s surprising how much contemporary critical writing is a chore to get through, not just on blogs and in Amazon reviews but even in the printed paragraphs appearing below some prominent bylines, where you find too often the same clichés, the same tired vocabulary, the same humorless, joyless tone. How is it, you wonder, that people so alert to the flaws of others can be so tone deaf when it comes to their own prose? The answer may be the pressure of too many deadlines, or the unwritten law that requires bloggers and tweeters to comment practically around the clock. Or it may be that the innately critical streak of ours too frequently has a blind spot: ourselves.

Non bisogna essere troppo critici con i critici. Tutti noi leggiamo – chi più, chi meno – dei libri e ne traiamo pensieri e giudizi: spesso li condividiamo pure, parliamo dei libri che abbiamo letto. Siamo lettori, e quindi anche critici e allenatori della nazionale.

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4 commenti su “Punti critici

  1. Raffaele Birlini

    La questione fondamentale è questa: come si considera l’opera d’arte?

    1) Se l’opera d’arte è un prodotto, allora possiamo aggettivare la critica come ‘liquida’: tutti si sentono in grado di esprimere un giudizio sull’opera, ognuno ha le sue opinioni che sono tutte egualmente valide, entrano in gioco le regole di marketing, gli investimenti pubblicitari, gli opinion makers, gli influencers, le campagne promozionali, la popolarità dei protagonisti, se ne parli male rischi cause per diffamazione, vince chi ottiene più mipiace, trova un modo per scalare le classifiche, vince dei premi assegnati da questa o quella cricca, il prodotto dell’anno, il più raccomandato dall’associazione dentisti. Il tema della mercificazione dell’arte risale ai tempi della prima pop-art (da Warhol a Banksy) che rivendicava proprio il fatto di rivolgersi alle masse e non ai cultori (hint: per essere cultori serve una cultura?). Per cui abbiamo i fan club, gli inviti alla tivvù, le recensioni vicendevoli fra amici che fanno lo stesso mestiere (hint: la concezione antielitaria – e dunque automaticamente ‘democratica’, politicamente corretta, buona und giusta – dell’arte come mestiere, senza connotati di predestinazione, misticismo alla neo di matrix, eroismo, sacrificio: l’arte la impari in brera o alla holden con corsi digitali da 400euro e se sei fortunato vinci la lotteria della vippitudine, diventi ricco e famoso, entri nella storia, quando muori i posteri fanno pellegrinaggi alla tua tomba e i sindaci ti dedicano le vie).

    2) Se l’opera d’arte invece vuole rappresentare qualcosa di assoluto, di ideale, allora il critico non è quello che ci dice perché non ci deve piacere, non è l’odiatore in cerca di obiettivi, ma è colui che esercita un senso critico allenato, educato, istruito. Un individuo a cui viene riconosciuta un’autorità che gli deriva dagli studi che ha fatto, dall’analisi critica delle critiche che esprime. L’artista non lavora per vendere o per piacere, non è interessato al successo e alla popolarità (già prima della pop-art, con Dalì e Picasso, iperproduttivi e consapevoli della ‘narrazione’, l’arte aveva già preso la via del commercio, già gli impressionisti, snobbati dall’accademia parigina, emarginati, boheme per forza e non per scelta, dovevano fare i conti col fatto che tele e colori non sono gratis e le bollette non si pagano da sole). Perché accada che opere d’arte e relative critiche diventino espressione di capacità superiori (superiorità effettiva, constatabile, non ideologica come la superiorità antropologica che assomiglia così tanto alla superiorità della razza immaginata dai socialisti nazionalisti tedeschi) bisogna però credere che esista un modo di rendere oggettiva, misurabile, riconoscibile l’importanza di un’opera in base ai dei valori (i famosi valori di cui molti lamentano la scomparsa). Se si afferma l’esistenza di valori che permettono una critica oggettiva dell’opera allora lo stesso principio si applica alla critica che diventa a sua volta analizzabile utilizzando un criterio (hint: criterio, critica, stessa radice) oggettivo. Sia la creazione artistica che l’attività critica assumono quindi un carattere ufficiale, esclusivo, che strappa il potere dalla mani del marketing e lo mette in quelle delle gilde accademiche.

  2. Raffaele Birlini

    Provo a spezzarlo in tre.

    La questione fondamentale è questa: come si considera l’opera d’arte?

    1) Se l’opera d’arte è un prodotto, allora possiamo aggettivare la critica come ‘liquida’: tutti si sentono in grado di esprimere un giudizio sull’opera, ognuno ha le sue opinioni che sono tutte egualmente valide, entrano in gioco le regole di marketing, gli investimenti pubblicitari, gli opinion makers, gli influencers, le campagne promozionali, la popolarità dei protagonisti, se ne parli male rischi cause per diffamazione, vince chi ottiene più mipiace, trova un modo per scalare le classifiche, vince dei premi assegnati da questa o quella cricca, il prodotto dell’anno, il più raccomandato dall’associazione dentisti. Il tema della mercificazione dell’arte risale ai tempi della prima pop-art (da Warhol a Banksy) che rivendicava proprio il fatto di rivolgersi alle masse e non ai cultori (hint: per essere cultori serve una cultura?). Per cui abbiamo i fan club, gli inviti alla tivvù, le recensioni vicendevoli fra amici che fanno lo stesso mestiere (hint: la concezione antielitaria – e dunque automaticamente ‘democratica’, politicamente corretta, buona und giusta – dell’arte come mestiere, senza connotati di predestinazione, misticismo alla neo di matrix, eroismo, sacrificio: l’arte la impari in brera o alla holden con corsi digitali da 400euro e se sei fortunato vinci la lotteria della vippitudine, diventi ricco e famoso, entri nella storia, quando muori i posteri fanno pellegrinaggi alla tua tomba e i sindaci ti dedicano le vie).

  3. Raffaele Birlini

    2) Se l’opera d’arte invece vuole rappresentare qualcosa di assoluto, di ideale, allora il critico non è quello che ci dice perché non ci deve piacere, non è l’odiatore in cerca di obiettivi, ma è colui che esercita un senso critico allenato, educato, istruito. Un individuo a cui viene riconosciuta un’autorità che gli deriva dagli studi che ha fatto, dall’analisi critica delle critiche che esprime. L’artista non lavora per vendere o per piacere, non è interessato al successo e alla popolarità (già prima della pop-art, con Dalì e Picasso, iperproduttivi e consapevoli della ‘narrazione’, l’arte aveva già preso la via del commercio, già gli impressionisti, snobbati dall’accademia parigina, emarginati, boheme per forza e non per scelta, dovevano fare i conti col fatto che tele e colori non sono gratis e le bollette non si pagano da sole). Perché accada che opere d’arte e relative critiche diventino espressione di capacità superiori (superiorità effettiva, constatabile, non ideologica come la superiorità antropologica che assomiglia così tanto alla superiorità della razza immaginata dai socialisti nazionalisti tedeschi) bisogna però credere che esista un modo di rendere oggettiva, misurabile, riconoscibile l’importanza di un’opera in base ai dei valori (i famosi valori di cui molti lamentano la scomparsa).

  4. Raffaele Birlini

    Vogliamo sostenere, in osservanza di un principio di egualitarismo assoluto, che tutti gli individui hanno la stessa capacità di utilizzare il senso critico? Che il parere di un QI geniale vale quanto il parere di un idiota? Oppure preferiamo stabilire che la critica di individui che hanno in mano una patente, che vestono uniformi, sono le uniche degne di ascolto affinché il gregge non erri nelle selve perigliose, le masse non sbaglino a votare? Se non hai la capacità di esprimere una critica migliore (migliore come? in che senso?) di quella di chiunque altro, come puoi avere la capacità di decidere se la critica che stai leggendo è migliore di un’altra? Qui sta la ‘liquidità’ della critica e di conseguenza dell’arte, qui sta la perdita dei valori connessa alla perdita di un autorità morale che tali valori stabilisca e imponga. Aspettiamo che i media ci dicano qual è l’opinione che va per la maggiore, o quella che la chiesa indica come più ortodossa, il partito indica come politicamente corretta, e ci adeguiamo, ci conformiamo, come i prolet orwelliani di 1984. Vogliamo evitare i pericoli connessi al potere vecchio stampo, autoritario, dispotico, e chiediamo più libertà, sempre più libertà? Allora accettiamo la morte dell’arte e della critica dell’arte. Accettiamo che l’opera d’arte è un prodotto dell’industria dell’intrattenimento e che la produzione artistica vada incontro alla logica del mercato e non a esigenze valoriali del potere, che sia religioso o politico (sempre che tra chiesa e partito vi sia più differenza che similitudine, il che è discutibile).

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