Ognuno ha la scissione che si merita

Anche se ci fossero ulteriori alzate di gomito nelle prossime ore, la “scissione” del PD si sta rivelando per quella che qualunque osservatore sensato e non ostaggio del sensazionalismo dei quotidiani sospettava fosse dall’inizio, ovvero l’uscita possibile dal partito di tre o quattro suoi esponenti noti, di decine e decine che ne ha. Uscita a sua volta ancora da concretizzarsi, eventualmente, ma che ha creato però intanto uno psicodramma imbarazzante e assai dannoso per il partito, con le complicità di molti attori, in misure diverse.

Matteo Renzi. Gli è venuto il panico da uscita di scena, come a qualunque personaggio televisivo a cui chiudano un programma e nessuno lo chiami per un paio di settimane. Giustificato dal fatto che l’esperienza con il partito e con il gruppo che lo circonda – del cui assemblaggio e conservazione è pienamente responsabile, il suo primo fallimento – farebbe temere il peggio a chiunque, non ha accettato di lavorare per rientrare da potenziale vincitore tra un anno, preferendo rimettersi in competizione subito, ancora da sconfitto al referendum e ora pure coprotagonista della disarmante scena di questi giorni. Non si capisce quali cambiamenti di scenario gli suggeriscano di poter avere a ottobre successi maggiori di quelli di dicembre (né quale consulente di matematica gli faccia pensare di avere i voti di quel 40%): avrebbe dovuto ripensarsi e riraccontarsi – la spinta propulsiva del suo primitivo successo è esaurita, altro ci vorrebbe, ora – e invece è rientrato in scena con ancora gli abiti laceri della fine atto precedente. Non è il suo diritto a decidere come ha deciso a essere in discussione – sul ricatto ha ragione: una piccola minoranza non ottiene con le minacce quello che non è in grado di ottenere democraticamente – e non lo sono le vicende del PD: ma quelle dell’Italia e della sua di Renzi eventuale possibilità di occuparsene proficuamente, cose che non hanno di certo beneficiato di questo improvvisato e sciatto rientro. Non è la prima volta che capita: chissà se si impara, ad aspettare la gallina domani.

I media italiani. Come nella gran parte delle occasioni politiche italiane, quotidiani e televisioni hanno soffiato forte su un fuocherello abbastanza da fargli bruciacchiare un po’ tutto. L’eccitante mito della scissione caro a datate generazioni di direttori e caporedattori è stato sbandierato per settimane, con le conseguenze reali che vediamo: un casino da ubriachi senza nessuna scissione (l’unica scissione resta quella del 1921; persino l’uscita del gruppo di Rifondazione, si può vedere a quali opposti e imparagonabili risultati abbia portato gli usciti e i rimasti). Due giorni fa Paolo Mieli l’ha notato brevemente sul Corriere, ed è stata l’unica parvenza di autocritica da parte di un’informazione che sa solo alzare asticelle di enfasi ogni giorno ed è ogni giorno costretta a superarle, e che detta l’agenda a politici succubi e in ansia da visibilità, e incapaci di messaggi indipendenti e autorevoli. In più, plagiati anche loro dal fastidio per le bullaggini di Renzi, dalla “personalizzazione” (di cui Renzi ha le colpe che si merita), tutti i commentatori hanno voluto esibire una assurda equidistanza tra i capricci degli “scissionisti” e le rigidità di Renzi, imparagonabili tra loro. Uno di certo non si è mostrato un leader coraggioso e inventivo come in altre occasioni, né all’altezza di grandi aspettative – si è limitato a fare ciò che era normale e legittimo, invece che ciò che poteva essere straordinario -, gli altri hanno perseguito un vendicativo piano dell’asilo, sintetizzato dalle parole di D’Alema di martedì sera, “Se Renzi viene rimosso, il centrosinistra tornerà a essere unito”. Ma dare occasionalmente ragione a Renzi è una cosa che sui quotidiani non si porta più, da un anno a questa parte, vista l’aria che tira.

La banda dei quattro/cinque. Bersani è quello su cui viene da essere più indulgenti: il malumore che si porta addosso da quella volta dello streaming si esprime in una svogliatezza prolungata che pare appannare qualunque brillantezza di un tempo. Sarebbe il più importante del gruppo, ma si comporta come se lo facesse ancora per la ditta, però per un’altra ditta. Va’ a sapere cosa vorrebbe davvero, ma viene da augurarglielo. Speranza occupa tutta la quota “giovani” del tuttora inesistente movimento, avendone peraltro 38: altre sue qualità politiche fino a oggi non si sono manifestate. D’Alema è spiritoso, e il ruolo che si è riguadagnato va a suo merito: come per Beppe Grillo, se sai fare buone battute un posto per te nell’attenzione mediatica ci sarà sempre e potrai sempre rileggere compiaciuto le tue interviste, anche in assenza di una qualunque comprensione della realtà o interesse alla cosa comune. Anche Emiliano è stato creativo: prima non aveva mai avuto un ruolo rilevante nel PD, lo ha ottenuto pubblicamente solo quando ha minacciato di uscirne, e adesso è diventato famoso, anche se non della fama migliore. Enrico Rossi è l’unico che ha avuto in questa vicenda un percorso inverso: si era costruito un ruolo e un progetto attento, sensato e promettente, in alternativa al PD renziano, e lo ha buttato via in due giorni non si è capito perché. O gli hanno fatto bere qualcosa di nascosto o più probabilmente è l’ultimo dalemiano leale fino alla disfatta, dopo che gli altri sono tutti usciti da quel tunnel e ora stanno bene.

Il PD. Alla faccia dei titoloni teatrali sulla fine del PD, sulla lunga distanza le cose di questi giorni finiranno nello stesso cassetto dell’uscita di Rutelli e Lanzillotta. La costruzione del PD rimane il successo più grosso, ammirevole e proficuo della storia politica italiana degli scorsi decenni: per dire, stiamo parlando del primo partito italiano, allo stato delle cose. Questo implica inevitabilmente inadeguatezze, fallimenti, dissensi, eccetera: più evitabile sarebbe uno scadimento della qualità generale della sua classe dirigente, salvo sporadiche eccezioni. Ma temporanei deperimenti dei contenuti non distruggono il contenitore. La fine-del-PD avverrà quando non ci sarà più il PD: a oggi, è una frase a effetto e il PD esprime la maggioranza di governo e il suo capo, per dirne un’altra.

Noialtri tutti di sinistra. Siamo tutti paralizzati nell’analisi di quello che sta succedendo alle nostre società, senza essere in grado di produrre non dico una soluzione – che magari non c’è, a breve – ma nemmeno dei diversi modi di pensare e progettare delle soluzioni possibili. Nessuno annuncia né propone nessun ripensamento di politiche, di messaggi, di priorità, di strategie, se non per dire che servono dei ripensamenti. In questo contesto, le cose di questi giorni sono davvero futili: un PD con dentro tutti o un PD senza Bersani e Rossi non mostra comunque di avere idee alternative a quello che sta succedendo. Può darsi che debba arrivare la catastrofe, quindi, come è arrivata dagli americani: e poi un paio di decenni di arrabattarsi a cercare di superarla. Solo che da noi era appena passata.

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