Una piccola storia di panico

Sabato sera ero a Londra. Venerdì sera avevo cenato in un chiosco argentino al Borough Market, sabato mattina avevo girato per il mercato affollato, fatto colazione lì, poi preso un autobus accanto a dove sabato sera il furgone è andato a sbattere nel semaforo. Il mio albergo era molto vicino, e quindi sabato sera tornando avevo pensato di fermarmi a vedere la finale in qualche pub del Market, invece poi ero stanco e sono andato a vederla in albergo, immaginando di tornarci dopo a mangiare qualcosa. Ho guardato la partita da solo, in chat con la redazione del Post che la stava seguendo. Quando è finita, abbiamo seguito cosa era successo a Torino, e ci stavamo per salutare, a mezzanotte italiana passata.

Ho passato la notte tra la polizia che sgombrava la zona e creava dei blocchi su tutte le vie per isolarla, la gente che veniva allontanata e arrivava spesso correndo, abbracciandosi, o piangendo, e le troupe televisive che hanno cominciato ad arrivare e insediarsi e lavorare. Tutte le cose purtroppo familiari di queste situazioni che di solito vediamo in tv o in video. C’è solo un pezzetto di storia, pochi secondi, che ora ho pensato di raccontare: ed è più per via di Torino – di cui da là fino a stasera avevo letto meno – che di Londra.

La gente veniva fatta uscire dall’area dell’attentato con grande energia e concitazione da parte della polizia: gli agenti urlavano a gran voce e ordinavano di fare presto, a volte di correre. Immagino che solo in questo modo sia possibile ottenere che così tante persone si tolgano da una potenziale situazione di pericolo: le persone arrivavano a gruppi e ondate, coi bambini in braccio, molti turisti e italiani, a un certo punto anche con le braccia alzate o le mani sopra la testa, non ho capito perché. L’impressione era che quasi tutti quelli che vedevo passare, forse tutti, fossero spaventati  e scioccati soprattutto dall’allarme e dalle notizie arrivate, non che avessero assistito alle violenze (questo avrebbe generato scene imbarazzanti poi coi giornalisti, che invano cercavano di estorcere racconti drammatici a persone che non avevano visto niente): però erano spaventati, e spesso arrivavano di corsa.

A un certo punto sono comparsi due ragazzini che sono stati circondati dai giornalisti: avevano un video nel telefonino in cui non si vedeva niente ma si sentivano degli spari, e fino a quel momento le notizie sugli spari erano ancora molto incerte. Ho ripreso con lo smartphone mentre mostravano il video e l’ho girato al Post, ma la rete era molto lenta e il video pesante, così sono ritornato indietro cento metri in albergo per usare il wifi.
Quando esco per tornare sulla strada, dopo appena una ventina di metri mi vedo arrivare addosso un sacco di gente che corre e urla: con la coda dell’occhio registro molta altra gente che corre verso altre direzioni, altrettanto nel panico. È una cosa che non so raccontare, mi accorgo: a chi l’ho descritto dopo non sono riuscito a rendere la violenza e la tensione di quello che evidentemente succede in questi casi. Arriva una confusione di persone correndo fortissimo e urlando e tu non hai idea di cosa stia succedendo ma in un istante metti tutto in relazione e pensi, pure in quel casino e mentre ti metti a correre anche tu cercando di non essere travolto, pensi, in un attimo: “stanno facendo uscire tutti da un’ora perché ci sono ancora attentatori in fuga, uno dev’essere alle nostre spalle, o qualcuno sta sparando, e mentre io corro potrebbe essere proprio dietro di noi”. Farebbe quasi ridere, a sentirlo dopo.

Gli isolati in cui ci troviamo sono tutti uffici, non c’è niente di aperto, solo il mio albergo: ci scaraventiamo in pochi secondi contro le porte a vetri elettriche. Ma le hanno chiuse da dentro, è passata mezzanotte, e sono tutti in allarme. Da dentro nella lobby-bar – c’è molta gente rifugiata, ma anche rimasti lì dal sabato sera – ci guardano a bocca aperta schiantarci contro le porte, decine di persone, io sono tra i primi perché ero il più vicino. Gli altri cominciano a battere contro i vetri urlando, è una cosa da paura, e uno di loro forza con le mani lo spiraglio e comincia a cercare di divaricare le porte: poi infine da dentro aprono, e ci rovesciamo dentro. Ancora convinti di un inimmaginabile pericolo alle spalle. Penso di andare in camera al sicuro, tutto avviene ancora in tre secondi, stiamo correndo, ma gli ascensori non sono al piano e non pensi di poterti fermare: un sacco di gente si butta su per le scale, una grossa chiocciola che si intasa subito. Con un gruppo andiamo allora verso un’uscita di emergenza dalla parte opposta a quella da dove siamo venuti, ma è chiusa e ci incanaliamo in un’altra porta che si rivela quella di un piccolo ufficetto cieco di servizio, dove in pochi secondi siamo in venti circa. Il posto più stupido dove essere se arriva qualcuno pericoloso: vedo le scene di quei massacri americani. Avviso al Post che succede qualcosa.

Passa qualche secondo e da fuori arriva solo ancora il rumore della gente agitata e che si muove in giro, e comincio a pensare ora alla possibilità di un falso allarme, che era come confinata in qualche angolo della testa da subito. Guardo fuori dalla porta: molta gente nella lobby, le porte a vetro richiuse.
Fine della storia: dopo mezzo minuto passato in fondo alla lobby ho visto che fuori gli agenti erano tranquilli, e altre persone erano riapparse in strada, e sono uscito e tutto stava tornando come prima, con altre persone che arrivavano allontanate, a frotte ma come prima. Non c’era stato nessun pericolo: nessuno ha saputo poi spiegarsi cosa avesse generato quel panico furibondo, e ho ricostruito che qualcuno si possa essere spaventato di un urlo di più, di un “presto, correte”, generando una reazione di massa terrorizzata e terrorizzante in un attimo.
Le ore successive sono state piuttosto intense, sia lì intorno, che nel leggere e scrivere di cosa fosse successo al Borough Market. Quei pochi secondi di panico sono rimasti una specie di allucinazione estranea, una parentesi aperta e chiusa subito in cui ero dentro invece che fuori. Mi è riapparsa in testa stasera, leggendo di Torino, e mi sono chiesto se ne abbia capito qualcosa: temo di no. Che accidenti fai, in quelle situazioni? Stai attento, cerchi di pensare, e di tenere d’occhio gli altri. Ma poi va’ a sapere. Non so neanche perché l’ho raccontato, che a Torino hanno visto ben altro.

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Un commento su “Una piccola storia di panico

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