Il morbo di Haggard

È appena uscito un libro per cui c’era una grande attesa da parte dei lettori italiani. La storia è torbida e avvincente e raccontata con una certa enfasi. Il protagonista incontra il figlio della donna che sconvolse di una folle passione la sua vita e nota “un’incredibile somiglianza” tra il giovane e sua madre. Per dimenticare (“come se il cuore potesse dimenticare”) egli era andato ad abitare una casa gotica “che spiccava il volo, si slanciava verso l’alto coi suoi timpani aguzzi e i suoi stretti comignoli, sotto un barbaglio di luna che scivolava sull’ardesia del tetto”, e che “brillava come un faro contro il cielo notturno”. E lui, “barca alla deriva nel mare buio e vuoto” con l’amata “unica stella a guidare la mia rotta” aveva scelto questo particolare sito (“ero stato annientato, distrutto nel corpo e nello spirito, e avevo bisogno di un rifugio dove sparire”) “sull’orlo di una scogliera che precipita per una trentina di metri, fino a gettarsi fra le rocce nere nel mare tempestoso”. Un luogo in cui “la brezza era tesa, fresca, satura di salsedine, la sentivo sul viso e sui capelli, e trasportava fino a me le grida dei gabbiani” e dove capita di essere “esposti agli elementi”. Il narratore, medico, racconta del suo incontro col giovane (“Oh, James”, “James caro”, “povero ragazzo adorato”, “angelo mio!”) che “cadrà in fiamme dal cielo come un dio morente” (“volare quanto amavi volare”), coi pazienti (“Ah, povero Eddie!”) e col proprietario della casa (“povero vecchio dottore”) che gli darà asilo: “il mio cuore era una stanza ammuffita, chiusa da troppo tempo, in cui tuttavia aveva cominciato a spirare un’aria fresca e pulita”. Segue la storia dell’amore nato e perduto, “dentro di me era ancora tutto allo stato embrionale, niente di più di un’inquietudine che avvertivo nel profondo”, per la donna dai capelli scuri “tagliati molto corti e che splendevano in morbide onde al lume delle candele”. Gli incontri avvengono mentre “il sole stava tramontando, il cielo era una dolce sinfonia di toni pastello fra l’azzurro e il grigio, con un solitario brandello di nuvole che pescava giù verso il mare, illuminando in basso da una chiazza di rosa acceso”, con “lunghe scie d’azzurro e malva che si insinuavano nella massa radiosa d’oro fuso dove il sole stava affondando, mentre alta nel cielo era comparsa una nuvola variegata a forma di freccia, con la punta rivolta verso ovest”, o tra “i sibili e il barbugliare delle onde che rotolavano, che mormoravano e schiaffeggiavano gli scogli”, e sono narrati con delicati accenni di sensualità: “quando la penetrai qualcosa urlò dentro di me”, “per un istante pensai a tua madre e il pene mi si indurì” (compiendo una puntura lombare a una paziente “grande e grossa, tutta rosea”), “scostò le mutandine di quel tanto che mi permise di introdurre appena il glande dentro di lei”, “adorava il mio pene, adorava il suo turgore, le sue vene gonfie e la testa grande, un po’ come la mia”. Una lettura che corre via leggera: “per l’orologio del mio cuore furono ere, eoni, eternità”.
Il libro è di Patrick McGrath, autore inglese del bestseller Follia, ed è intitolato Il morbo di Haggard. Lo pubblica Adelphi.

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