Wen Ho Lee è lo scienziato americano di origine cinese che pochi mesi fa divenne protagonista di un caso clamoroso di spionaggio internazionale, ospitato largamente sui media di tutto il pianeta e responsabile di un ulteriore aggravamento dei rapporti tra Cina e Stati Uniti. Sua la responsabilità di aver passato ai cinesi informazioni riservatissime che avrebbero loro permesso di costruire avveniristici missili capaci di evitare le intercettazioni nemiche. Una questione decennale di spionaggio e controspionaggio concentrata sulla testa cappellata di un sol’uomo sul cui computer erano stati trovati codici ultrasegreti relativi a quel progetto militare: una storia da prime pagine e terremoti politici, che ci sono stati.
I repubblicani americani ci sono balzati eccitatisssimi di mangiarsi in un sol boccone il pericolo giallo e le inadempienze dell’amministrazione democratica. I democratici, per non farsi cogliere troppo con le brache calate, hanno fatto la voce ancora più grossa e dato addosso a Lee e alla Cina tutta, che già era nervosetta per le vicende dell’ambasciata di Belgrado e per il sostegno americano agli odiati cugini di Taiwan. Risultato, quattro mesi di bufera internazionale ed elettorale (siamo già in piena campagna presidenziale 2000) intorno alla testa di questo cinquantanovenne nato a Taiwan e americano dal 1964.
Nel 1995 l’allora direttore dell’intelligence al Dipartimento per l’Energia individua Lee come protagonista di una misteriosa trattativa con la CIA nel 1988, e sospetto aiutante degli improvvisi avanzamenti militari cinesi. La CIA la ritiene una bufala e gli esperti sono d’accordo nel considerare i progressi cinesi solo propaganda, ma la storia finisce nel 1998 tra le mani del deputato Christopher Cox e della sua commissione d’inchiesta, che ne sono intrigati al punto di passarne ampie parti alla stampa e fare esplodere un caso contro l’amministrazione democratica e la sua cialtroneria in materia di segreti militari. Come primo risultato il parlamento approva due decreti a favore di nuove ricerche sulla difesa missilistica che erano stati precedentemente bocciati. Dalle inchieste appaiono in effetti buchi annosi nelle cautele controspionistiche americane e la commissione Cox pubblica un rapporto che mette sotto accusa tutto il sistema di difesa. Il rapporto viene ripreso dalla stampa internazionale che non manca di riconoscere una certa paranoia nella tesi per cui ognuno degli 80.000 cinesi che ogni anno visitano gli Stati Uniti è stato incaricato di ricerche spionistiche dal suo governo e altre trovate di questo genere, ma nemmeno di condividere la fondatezza delle preoccupazioni complessive. Quello che si capisce, passato il polverone, è che la sicurezza militare americana è piena di falle, ma che, con le parole di una commissione di esperti “l’aggressivo sforzo di raccolta di informazioni da parte dei cinesi non ha dato luogo a nessuna apparente modernizzazione della loro forza strategica né del loro arsenale militare”.
Dal rapporto, intanto, è sparito il nome di Wen Ho Lee, chi dice per proteggere l’indagine, chi per l’imbarazzo di non avere trovato contro di lui nient’altro che quei files di codici nel suo computer non protetto dell’ufficio (i laboratori di Los Alamos hanno una struttura informatica protetta e una non protetta). Si viene a sapere, inoltre, che i codici trovati sono parziali e del tutto inutilizzabili.
Le contestazioni alla strategia diplomatica nei confronti della Cina rimangono vivaci, ma tra gli osservatori più attenti di entrambe le parti politiche americane appare chiaro che il consolidamento dei rapporti è l’unica strada sensata: non certo una nuova guerra fredda. In questo quadro delicatissimo la questione delle relazioni tra i due paesi sulla vicenda di Taiwan rendono il gioco ancor più acrobatico, e la questione di chi fa la voce più grossa essenziale.
E Wen Ho Lee? Dello scienziato appare sempre una foto con giubbone e cappello a larga tesa, immagine fortemente evocativa del pericolo nelle case degli americani (una tendenza al sospetto anticinese si è impadronita in questi mesi di diversi settori della società): le ultime notizie sono di due giorni fa. Licenziato a marzo, sarà probabilmente accusato di negligenza nel controllo di informazioni riservate ma non di spionaggio. Adesso qualcuno tra i repubblicani accusa il Dipartimento per la Giustizia di averne fatto un capro espiatorio. Lui si dichiara innocente e ricorda le tre password necessarie ad accedere ai dati nel suo computer: “a volte faccio fatica io stesso”. Le indagini non hanno trovato nessuna traccia di contatti con la Cina né di contropartite e hanno dimostrato che il suo comportamento imprudente è assai diffuso nelle istituzioni di ricerca militare e non. “Ma io ero l’unico orientale su un progetto top secret negli ultimi diciotto anni”. O forse era davvero una spia.
Wen Ho Lee, la spia sbadata
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