Inside the Oval Office

Si chiude una porta. Qualcuno inizia a parlare. Scatta un nastro, il registratore nascosto nel ripostiglio della stanza ellittica più famosa del mondo. Le voci incidono il nastro, ministri, ambasciatori, deputati, consiglieri, generali; e presidenti, quasi sessant’anni di voci di undici presidenti americani, soggiogati per mezzo secolo dalla tentazione di raccogliere, spiare, archiviare, decisioni e conversazioni del luogo più potente del pianeta, quel luogo che si chiama Ufficio Ovale.
La tradizione delle registrazioni presidenziali, appena emersa da noi a proposito del sttennato di Oscar Luigi Scalfaro, è assai più longeva e studiata negli Stati Uniti. E se le similitudini sono molte, diversa è la pubblicità data a colloqui e telefonate trasferiti su nastro. Qui l’esistenza di un misterioso microfono tondo e schiacciato sul tavolino dello studio del Presidente è stata appena rivelata e si discute di quando ne fossero consapevoli gli ospiti del Quirinale. Laggiù, la materia ha demolito presidenti e segnato caratteri e carriere, e ci si chiede solo se esista ancora qualcosa da scoprire.
Inside the Oval Office (Dentro l’Ufficio Ovale) è il titolo di un libro del giornalista William Doyle pubblicato da poco negli Stati Uniti, una storia della presidenza degli Stati Uniti, da Franklin Delano Roosevelt a William Jefferson Clinton, attraverso la loro attitudine nei confronti della registrazione, clandestina o no, delle proprie e altrui parole. Il materiale viene in parte dagli archivi ufficiali della Casa Bianca, in parte da un meticoloso lavoro di ricerca presso le fondazioni presidenziali: intercettazioni a volte ufficiali, a volte autorizzate segretamente dai presidenti. Ma se la lettura di questa raccolta di trascrizioni e biografie (in cui il lettore rimpiange che non siano maggiori le trascrizioni) offre spunti eccellenti alla ricerca storica, il meglio lo danno i dialoghi “comuni” e le gaffes, le battute, le debolezze più inattese. Come la telefonata di una furibonda Margaret Thatcher a Ronald Reagan, che aveva appena mandato cinquemila soldati a invadere Grenada ignorando che lo stato centroamericano facesse parte del Commonwealth e perciò senza che nessuno avvisasse la sua fidata collega inglese: “Temo che ci sia stato un difetto di comunicazione”, è tutto quello che Reagan riesce a balbettare. Trent’anni prima, nel 1956, Dwight Eisenhower trattava con ben altra fermezza il diligente Primo Ministro britannico Anthony Eden sulla crisi di Suez: “Voglio essere chiaro: non ci sono questioni tecniche che tengano. Voi accettate la tregua comunque”. È invece scioccante la leggerezza con cui John Kennedy, nel mezzo di una crisi che si sta risolvendo in strage all’università del Mississippi, esclama sarcastico “Era dalla Baia dei Porci che non mi divertivo così”. Le registrazioni offrono tra l’altro un quadro disarmante di quanto maldestra fosse stato proprio quell’incursione contro Cuba, in cui i dissidenti esuli erano stati mandati allo sbaraglio e poi abbandonati al loro tragico destino, e quanto sprovveduto fosse Kennedy nell’affrontare i suoi primi guai da presidente.
E la rete di registrazioni segrete che Kennedy aveva ordinato nei confronti di suoi interlocutori, collaboratori, avversari, giornalisti, scoperta solo nel 1982, è uno degli elementi che più spiazza nella ricerca di Doyle. In un paese in cui l’uso di tattiche e spionaggi segreti da parte delle istituzioni, dopo il Watergate, era diventato il discrimine tra i buoni e i cattivi presidenti, scoprire che persino la figura dalla maggiore allure di integrità e idealismo aveva fatto spiare “praticamente tutti a Washington”, diede una luce disarmante al morboso rapporto tra bobine e primi cittadini. Benché proprio la catastrofe della presidenza Nixon sia poi divenuta lo spartiacque tra un atteggiamento disinibito e piratesco e una ritirata terrorizzata da qualsiasi rischio di testimonianza futura. Se Carter arrivò addirittura a non lasciare niente di inciso del suo mandato ingenuamente contabile e diligente (non sempre diligente: una volta mandò i codici dell’attacco nucleare in lavanderia con la giacca che li conteneva), tutti i presidenti del dopo Nixon mostrano un attenzione preoccupatissima a cosa resta di registrato, quasi sempre materiale raccolto per pure ragioni di economia autobiografica.
Bisogna quindi risalire a Roosevelt, primo installatore di un apparecchio registratore all’interno della Casa Bianca, nel 1940, per leggere le prime chicche di umorismo involontario. Fu lui a contraccambiare la richiesta dei leaders neri per una maggiore integrazione razziale all’interno delle Forze Armate, proponendo piuttosto “una bella banda di colore in Marina; sono dannatamente bravi, dovremmo pensarci: ci potrebbe essere un direttore della banda”. Le insensibilità presidenziali sono un filo continuo e vario, da Eisenhower (che si infuriava per gli scoiattoli nel parco della Casa Bianca che gli disturbavano il golf, “prendete un fucile e sparategli!”) a Johnson, la cui nota volgarità è arricchita qui da una richiesta telefonica al proprietario di una società di abbigliamento (“Devo andare in giro nudo, o mi fate fare dei vestiti? E mi raccomando, non troppo stretti lì dove stanno appesi i coglioni”) dal rapporto col suo ex maestro e padre putativo senatore Russell (“Non ti posso far arrestare dall’FBI, ma tu mi obbedirai, chiaro? E puoi giurarci che sei ai miei ordini”) e dalla fedeltà richiesta a un suo futuro collaboratore (“Voglio che mi baci il culo nella vetrina di Macy’s a mezzogiorno, e mi dica che profuma di rose”). Frasi ancor più intriganti se confrontate con quelle lasciate su nastro in diverse occasioni dallo stesso uomo: “Non credo di essere in grado di sostenere fisicamente e psicologicamente la responsabilità della bomba, del mondo, dei negri e del Sud. Vorrei solo un gran sollievo e un po’ d’amore. Un po’ d’amore”.
Da un punto di vista della Storia con la esse maiuscola, sono le trascrizioni dei dialoghi durante le grosse crisi quelle che mettono più in luce le falle o gli eccessi di decisionismo di alcuni di questi undici uomini nominati capi di mezzo mondo: l’attacco a Pearl Harbour per Roosevelt, la Baia dei Porci e la rivolta del Mississippi (l’iscrizione all’università del primo studente nero) per Kennnedy, il Vietnam per quasi tutti, con Johnson che già nel 1965 confessa che non vede altro da fare che “pregare e sperare che mollino col monsone: non abbiamo nessun piano né militare né diplomatico”.
Della relazione suicida di Nixon con le registrazioni si era già detto e scritto moltissimo, ma qui balena una sintesi eccellente del funzionamento della sua amministrazione, in cui gli scatti presidenziali (che arrivavano non di rado a fargli ordinare, per i suoi avversari, di “sbatterli a terra e camminarci sopra”“fargli staccare la testa da qualcuno” ) erano bilanciati da una ordinaria disposizione del suo staff a ignorarli (“bene, capo: pensiamoci sopra, e ne parliamo domattina, okay?”). Tanto che lo stesso Nixon arriva a chiedere: “In futuro voglio che teniate una nota di tutto quello che ordino e che mi indichiate che cosa avete fatto, e soprattutto voglio sapere quali cose avete deciso di non fare”. Linea di difesa peraltro tenuta lungamente durante il Watergate, quella per cui il presidente non diceva sul serio quando ordinava effrazioni, corruzioni e furti (“per queste cose, riciclaggio, eccetera, ci vorrebbero dei mafiosi, noi non le sappiamo fare, non siamo mica criminali” ammette il suo consigliere John Dean). Ma che il controllo fosse largamente perduto lo testimonia la telefonata con cui un collaboratore di Nixon lo informa delle telefonate spiate allo stesso Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza.
I successori di Nixon si fanno più prudenti, e registrano meno incontri, sempre dichiaratamente, spesso per prendere appunti e arricchirsi con le successive autobiografie, o, come lascia immaginare l’autore per quanto riguarda Clinton, vengono sorvegliati da strutture statali molto più accorte. Ma lo stesso Clinton si mise nei guai, ancor prima di Monica, con una questione di fondi elettorali raccolti con incontri alla Casa Bianca e registrati dalle telecamere del servizio interno (una comica sequenza in cui il presidente accoglie via via tutti i possibili contribuenti con lo stesso “Salve, bella cravatta!”).
Ma malgrado i suoi successi negli anni del disgelo, nel 1982 è ancora Reagan a dare l’immagine della più spiccia e sbadata diplomazia dialettica. “Menachem, questo si chiama olocausto”, esclama al telefono col primo ministro israeliano Begin che sta facendo bombardare Beirut da settimane. E che risponde, desolato, “Sì, signor presidente, so cos’è un olocausto”.

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