Il paese ha bisogno di vittorie

“Suddenly the whole world is italian”. Era una pagina sinistra di Time, in un numero di diciannove anni fa. All’improvviso tutto il mondo era italiano. Una grande foto occupava metà della pagina, Dino Zoff che teneva in alto la coppa del mondo seguito dai suoi compagni, nel giro di campo al Santiago Bernabeu. Ero al liceo, e me la ricordo bene quella pagina perché rimase attaccata a una parete per molti anni. Si impolverò, ingiallì e una volta si strappò, ma era bella anche con un pezzo di scotch in un angolo. Non lo racconto per rinnovare il fondato quanto trito luogo comune sugli italiani patriottici solo con la nazionale di calcio. Mi è venuta in mente leggendo un articolo di John Twohey sul Chicago Tribune di due settimane fa. Il titolo era “Mostriamo agli afgani il cuore, l’anima, la bellezza dell’America: la nostra cultura parla da sola”. L’idea – ovviamente paradossale, un alibi  era che agli afgani si dovesse mostrare quello che l’America offre loro non solo mandando cibo e aiuti, ma grazie anche a “un altro arsenale”. “Nei pacchi paracadutati dovremmo mettere foto, videocassette, nastri”, e seguiva un elenco del tutto personale di una trentina di cose che secondo l’autore sono un campione della bellezza dell’America. Una lista molto pop culture, molto “anima mia”, ma con una dose di patriottismo tradizionale mediato sempre da uno sguardo attento alla grandezza estetica: ci sono Judy Garland che canta “Over the rainbow” e il discorso di Martin Luther King, l’ultimo tiro di Michael Jordan con i Chicago Bulls e la discesa di Neil Armstrong sulla luna, la folla che accoglie Charles Lindbergh a Parigi e il Primo Emendamento della Costituzione, il fumetto Calvin e Hobbes e le foto di Ansel Adams. Eccetera. Il patriottismo dell’America e la sua pop culture si sovrappongono molto.

Si può fare una cosa del genere per l’Italia? Certo malgrado la dissociazione tra patriottismo istituzionale e cultura corrente sia maggiore – e ognuno può pensare alla sua lista: per esempio i versi “L’amore che strappa i capelli è perduto ormai” di Fabrizio De André, la stazione di Santa Maria Novella, la lettera d’addio di Gabriele Cagliari, Soldini quando andò a prendere Isabelle Autissier. E anche quella benedetta finale, e più che per l’urlo di Tardelli, per quello di Nando Martellini. Ovvero, si può costruire e dare forza a un patriottismo proprio, personale e non per questo meno vero e appassionato, da opporre  da associare, si dovrebbe dire: sono gli indici puntati a costringere all’opposizione  a quello solenne, datato, retorico, a volte trombone e a volte sincero di chi pretende che l’amor patrio passi solo per la bandiera, Massimo D’Azeglio, il nostro-bel-Rinascimento-che-tutto-il-mondo-c’invidia ed espressioni come “l’amor patrio”? 
Ho amici particolarmente accalorati nel sostegno all’America di queste settimane, che hanno riempito le loro case di bandiere a stelle e strisce – vuoi vere, vuoi del Foglio  hanno improvvisato pennoni, hanno scaricato da internet sfondi del computer con i pompieri e l’alzabandiera. Alcuni hanno trovato delle bandiere israeliane, e con ugual passione ne hanno impavesato l’ufficio. Lo fanno per solidarietà con l’aggredito, ovviamente, e per prossimità alla sua cultura. Ma mi pare che lo facciano molto per solidarietà ed entusiasmo per l’aggredito che reagisce, e con autentica passione si sentano vicini alle di lui vittorie. Alle rivincite.

Non hanno un tricolore, i miei amici. Non lo espongono di certo, e dubito che lo posseggano. Forse lo farebbero, nel momento in cui sentissero il nostro paese colpito, ferito, minacciato. Ma forse aspetterebbero che il nostro paese reagisse, che restituisse il cazzotto. Quando Rocky le busca siamo ammutoliti, sofferenti, vorremmo non vedere. È quando Rocky si rialza e comincia a restituirle che ci sentiamo con lui, e gli gridiamo “vai, Rocky!” e ci alziamo sulla sedia.
Si legge che gli italiani sarebbero poco patriottici perché un cinquantennale lavoro della sinistra li avrebbe resi tali. Oppure che una cinquantennale colonizzazione culturale americana li avrebbe resi più affezionati ai miti americani che non a quelli italiani. Può darsi, soprattutto la seconda. A me pare che in Italia ci sia una forte consuetudine con il fallimento. Con le sconfitte. Con le delusioni. Mi pare che ci sia un legittimo disfattismo alimentato da un secolo di sconfitte militari, onte storiche, piccolezze politiche. Guerre perdute, un regime di cui vergognarsi, mai un governo che arrivasse al panettone, pastette interne e pochezze internazionali, malfunzionamenti quotidiani, sono sì diventate un luogo comune, ma sono anche l’immagine che l’Italia ­ alternandola solo a quella delle tragedie e dei dolori – ha dato di sé e a sé nel secolo scorso. In un paese che sul piano pubblico e dell’informazione sarà anche per la propaganda del noto quanto agevole predominio culturale della sinistra ­ ha mantenuto una continuità con se stesso tutta sul filo del ridicolo, esibire un amor patrio convinto e privo di ironia richiede uno sprezzo del ridicolo di cui non tutti sono capaci.

C’è poi una differenza saliente, mi sembra, tra come gli americani sentono il rapporto con la creazione del loro paese, della sua bandiera, del suo inno, e come lo viviamo noi con i nostri. Gli americani amano la bandiera e l’inno. Anche i francesi amano la Marsigliese, anche i ragazzi. Per entrambi quelli sono simboli non tanto  o non solo  dell’indipendenza da un giogo esterno, sollievo anacronistico e superato per i giovani occidentali. Sono simboli di libertà, e di uguaglianza. La rivoluzione francese aveva quelli come motti; l’indipendenza degli Stati Uniti li ha resi il paese della libertà, il paese aperto a tutti, il paese che ha combattuto un’ulteriore guerra per l’uguaglianza dei suoi cittadini. C’è forse una forza di questi valori  attuali, vivi, sentiti  che qui è stato tramandata dall’unità d’Italia? Due giorni fa un programma di Radiotre ha fatto parlare diversi ragazzi liceali sulla bandiera e la patria. La maggior parte “la sola bandiera è quella della Lazio”, e cose del genere erano pure presenti  diceva di essere affezionata all’Europa oltre che all’Italia, di aver difficoltà ad appassionarsi a una cosa che le sembrava vecchia, la patria (Sandro Pertini, un ragazzo italiano appassionato, ci teneva a chiarire di odiare il nazionalismo e che lui amava la sua patria ma anche le patrie degli altri). Per commuovere i ragazzi italiani, la nascita del loro paese e i suoi simboli si debbono fare forza della liberazione dal tiranno austriaco, o dalllo Stato della Chiesa. Capirete le difficoltà. E l’occasione recente di associare di nuovo all’Italia un’idea di libertà e uguaglianza, quell’occasione che cinquantasei anni fa ha vinto il maggior nemico della libertà e dell’uguaglianza della storia nazionale, è stata persa per non aver saputo far prevalere a sufficienza la libera bandiera repubblicana sulla bandiera dei soprusi che l’aveva preceduta. E per aver affogato quei due valori ­ libertà, uguaglianza – dentro beghe di portata storica, e quel che sappiamo.

Questo nostro non è “the land of the free”. Questo non è il paese di “liberté, egalité, fraternité”. Non resta che costruire altre ragioni per andarne fieri. Il paese ha bisogno di vittorie. Bella frase ironica, eh? Invece dico sul serio, con sprezzo del ridicolo. Se non di vittorie, almeno di buon gioco. Se non di buon gioco, almeno di vedere che si sta lavorando bene, e poi le vittorie vengono, come ha detto ieri Hodgson, l’allenatore dell’Udinese. L’amorpatrio lo si guadagna. Perché in sostanza è questo che chiedono la stima del proprio paese e la voglia di appendere bandiere. Rivincite, belle figure, primati, cose di cui andar fieri. “Siamo stati bravi”. Per ora ognuno di noi ha le sue e se le tiene strette, ma l’unica che abbiamo tutti quanti  la sua straordinarietà detta dall’avverbio “suddenly” – è ancora quella formidabile foto di Zoff.

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