Art Spiegelman

Art Spiegelman (Stoccolma, 1948) è un autore di fumetti statunitense. Spiegelman è codirettore della rivista di fumetti e grafica Raw, di cui è stato uno dei fondatori, ed è tra gli artisti che hanno compilato e illustrato graficamente i lemmi del Futuro dizionario d’America (The Future Dictionary of America, pubblicato da McSweeney’s nel 2005). Ha pubblicato svariati lavori su riviste statunitensi come New York Times, Village Voice e New Yorker. In Italia le sue storie sono pubblicate dal settimanale Internazionale. Nel 1982 ha ricevuto il Premio Yellow Kid a Lucca. Attualmente insegna alla School of Visual Arts di New York.
Art Spiegelman deve la sua fama principalmente ad un’unica opera, Maus, un romanzo (auto)biografico in fumetti pubblicato tra il 1973 ed il 1991, dove si narra la storia del padre, Vladek Spiegelman, un ebreo polacco sopravvissuto alla Shoa.

Maus, appunto. Qualche giorno fa Slate, il giornale online, ha analizzato la sua opera per cercare di capire se sia possibile per Spiegelman disegnare qualcos’altro di valido dopoMaus (che vinse un Pulitzer nel 1992). Di recente è stato ripubblicata una sua vecchia raccolta di storie, Breakdowns. Secondo Slate la metà della storia mancante in Maus (il diario di sua madre, bruciato da suo padre) è anche la metà della storia che manca a Spiegelman: Anja si suicidò nel 1968. Spiegelman ne parla nell’introduzione a Breakdowns, e racconta di come lei gli comprò la sua prima rivista a fumetti (era Mad): “ma non dirlo a tuo padre”. Nella postfazione, Spiegelman dice di avere nostalgia per quel disegnatore più eclettico e arrogante che era ai tempi delle storie di Breakdowns, prima di Maus. Secondo l’articolo di Slate è un’invidia che cela un senso di colpa, quello di ogni grande artista che ha creato una grande opera raccontando le sofferenze dei suoi cari. E gli schizzi che aveva dato al penultimo numero di McSweeney’s, la rivista di Dave Eggers, sembrano raccontare un uomo pieno di ansie e consapevolezza di sé e delle sue inadeguatezze. “Se la tua opera è l’olocausto”, dice Slate, “dopo che fai?”.

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