Una rosa è una rosa

C’è un passaggio, nelle lezioni che facciamo col Post su scrittura e linguaggio, dedicato al terrorismo scolastico intorno alle ripetizioni di termini, terrorismo che ci rimane attaccato tutta la vita ed è una delle molte cose su cui poi non ci fermiamo più a chiederci “perché?” e che applichiamo con pigrizia e automatismo.

Parlandone, raccontiamo di quei campi in cui questo terrore è diventato una via di mezzo tra una goffaggine comica e una forma d’arte, come quello del giornalismo sportivo (“la squadra labronica”, “la compagine felsinea”) che ha l’involontario merito di avere insegnato termini altrimenti ignoti a molti italiani interessati al calcio, o quello musicale, in cui la motivazione è più di esibizione gergale da insider (“il duca bianco”, “il menestrello di Duluth”, “il principe di Minneapolis”, “i quattro scarafaggi”, eccetera).

(mentre ne scrivevo mi sono ricordato del telecronista di una tv pisana che commentava un cimento folkloristico locale tra le due fazioni cittadine, una a sud e una a nord dell’Arno, e per non ripetere i loro nomi Mezzogiorno e Tramontana, chiamava ogni tanto la seconda “la parte di Borea”, non azzardandosi però – come speravamo noi da ragazzi – a coniare “la parte di Austrea”).

Ma ci sono anche conseguenze più serie di queste, nell’infantile ansia da ripetizione nella scrittura giornalistica, come per esempio la confusione di cose, concetti, significati che sarebbero diversi, soprattutto in ambito scientifico (è ormai accaduto tra coronavirus e covid-19 – un virus e una malattia – in questo caso anche per semplice ignoranza e disattenzione): ne ha scritto oggi Anna Masera nella sua rubrica da “public editor” sulla Stampa a proposito dell’uso errato da parte di diversi giornali del termine “siero” per indicare un vaccino, uso spiegato appunto con la presunta necessità di evitare ripetizioni.

in un contesto divulgativo come quello giornalistico, linguisti e scienziati ci esortano a essere più elastici rispetto al timore delle ripetizioni in favore dell’accuratezza, e di spostare l’attenzione dedicata a evitare le ripetizioni su problematiche giornalistiche più meritevoli.

Il fatto è che fino a che ci terremo l’eredità scolastica che la lingua vada usata in modo rigidamente regolamentato, che esistano il “giusto” e lo “sbagliato” a prescindere dagli obiettivi di comunicazione, chiarezza ed esattezza, questi obiettivi ne risentiranno e la lingua la useremo nel modo più inefficace. Era una cosa spiegata bene in questo vecchio post in cui mi sono imbattuto di recente, e che dice – con l’esempio dell’imperfetto ipotetico –  della libertà d’uso della lingua in base appunto alle ragioni per cui la si usa.

Certo, da un punto di vista didattico (scusate, qui è di nuovo l’insegnante che parla) questo comporta molte difficoltà. Gli allievi vogliono delle certezze, e bisogna dare poche indicazioni semplici e chiare.

E siccome poi cresciamo e restiamo sempre un po’ “allievi” dentro, questo poi vale anche quando scriviamo da adulti: non ci emancipiamo da quelle rigidità e certezze, da quelle indicazioni semplici e chiare, e finiamo per chiamare siero un vaccino perché “è brutto, l’ho già scritto, vaccino”.
Non tutti, però: e nelle lezioni di cui dicevo usiamo questo esempio a cui sono affezionato come lo si è a un gesto rivoluzionario di maturo esempio, libero, sicuro del fatto suo. È di Tonia Mastrobuoni, che al contrario di molti suoi colleghi, ritenne quel giorno che non ci fosse nessuna ragione sensata per usare metonimie, sineddochi o altre acrobazie (“il paese nordeuropeo”, “la nazione di Angela Merkel”), piuttosto che semplicemente dire “la Germania” due volte in due righe, perché di quello si parlava. Della Germania.

 

(Su questo genere di cose: Un’idea di scrittura)

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