Weeklypedia (dove si parla di Kakistocrazia, bici fantasma, Rick Redfern, Köln Concert, Rocky steps, Gian Maria Madella)

Khakistocrazia è un’espressione usata per definire il governo militare di un paese spesso in collusione con un potere economico, con l’intento di averne sostegno e perpetuare il regime. È stato il caso di paesi come la Nigeria, l’Iraq, il Pakistan e la Corea del Nord.
La parola trae probabilmente origine dal greco: il termine kakistocrazia si riferisce a un governo sotto il controllo dei cittadini peggiori o meno adatti di un paese. Un’altra plausibile spiegazione ha a che fare con la parola kaki, il colore associato di solito alle uniformi militari.

Wikipedia italiana non ha una voce sulla kakistocrazia, e quella inglese mescola un paio di significati differenti, con un’acca in più o in meno. Il Wiktionary (la versione dizionario di Wikipedia) però spiega che viene da “kakistòs” che in greco vuol dire “peggiore”. Riprendendo il tema dell’antielitismo, è un po’ inquietante scoprire che un fenomeno che ci si vorrebbe illudere sia passeggero ha già invece una definizione così esatta, e di così solenne etimologia. Kakistocrazia: il governo affidato ai peggiori. Aspettate che la scopra Beppegrillo.

Una bici fantasma o fantacicletta è una bicicletta posta sul luogo in cui un ciclista è stato investito o ucciso come ricordo della vittima e avvertimento per gli automobilisti che la strada va condivisa. Si usa una carcassa di bicicletta dipinta di bianco, incatenata a un palo o un oggetto vicino al punto dell’incidente, su cui viene posta una targa. Questi memoriali sono soprattutto una manifestazione politica, una dichiarazione più ampia del solo ricordo personale, condotta dalle associazioni di ciclisti: a differenza dei tipici ricordi di incidenti mortali sul ciglio delle strade, di solito del tutto personali.

Pare che l’idea dei telai di bicicletta dipinti di bianco sia nata come progetto di un artista californiano nel 2002. Andava in giro e quando trovava dei vecchi relitti di bici abbandonati, li dipingeva sul posto di grigio chiaro. Ma a farne delle lapidi in ricordo delle vittime degli automobilisti, e una campagna a favore dei ciclisti, fu un ragazzo di Saint Louis, che nel 2003 lasciò una bici dipinta di bianco dove un suo amico era stato travolto e ucciso, e ci scrisse sopra “Qui è stato investito un ciclista”. La cosa faceva impressione a chi passava di lì in macchina, e il ragazzo decise di disporre altre “ghost bikes” in giro per la città. Da allora la cerimonia è dilagata in molte città del mondo, e questa settimana l’Observer le ha dedicato due pagine piene di foto di biciclette fantasma. Nel movimento dei ciclisti ci sono alcuni critici della campagna che sostengono che le bici lapidi possono spaventare non solo gli automobilisti ma anche i potenziali ciclisti. Molte ricerche hanno dimostrato infatti quel che è intuitivo: gli incidenti diluiscono con il crescere del numero dei ciclisti. L’Observer diceva che in Gran Bretagna ne muoiono circa 130 l’anno, soprattutto per colpa dei camion. I dati italiani parlano di più di trecento.

Rocky Steps è il soprannome della scalinata di fronte al Philadelphia Museum of Arts, a Philadelphia, Pennsylvania. La si vede nel film Rocky e in quattro degli episodi successivi. I turisti e i cittadini di Philadelphia spesso imitano la famosa corsa sulle scale di Rocky, metafora dell’uomo della strada che ce la fa e vince la sua sfida. Una statua in bronzo di Rocky fu sistemata in cima ai gradini per le riprese di Rocky III. Adesso si trova sulla destra ai piedi della scalinata ed è una meta fissa per le foto dei turisti.

Philadelphia potrebbe andare molto di moda, prossimamente, se la squadra dei Phillies vince le finali del baseball, a fine mese. Il mio socio radiofonico Bordone ci è appena andato per intervistare quel regista del Sesto Senso con il cognome complicato (devo guardarlo su Wikipedia), e abbiamo pensato che fosse divertente fare in radio la gag della corsa sulla gradinata. Già, in radio: sembra una cretinata, ma vi giuro che è venuta divertente. Però non avevamo letto ancora Wikipedia e quindi non immaginavamo che alla base della gradinata ci fosse una specie di fila di Rocky improvvisati in attesa del loro turno.
Stallone ha raccontato una volta che la corsa era stata pensata con lui che portava il cane in braccio, per giunta. Ma il cane si rivelò troppo pesante, e la fecero senza. Nell’ultimo Rocky – Rocky Balboa – la nuova corsa sulla gradinata culmina nel sollevamento del cane.

Gian Maria Madella (Milano, 2 luglio 1950) è un giornalista italiano, direttore di vari periodici. Ha iniziato negli anni Settanta al quotidiano l’Unità, occupandosi di cronaca e sport. Successivamente ha lavorato alla Gazzetta dello Sport, al settimanale Oggi, ed è stato direttore editoriale del celebre Studio Diagonale di Luigi Testori, vera fucina di creatività giornalistica degli anni Ottanta. Dopo aver diretto il femminile Moda, Madella si è via via specializzato nell’importare in Italia, lanciare e dirigire prestigiose testate straniere, tra cui l’inglese Maxim, il francese 20Ans, l’americano Men’s Health, lo spagnolo Sport Life e, più recentemente, la più antica rivista di outdoor americana, Outside, per la casa editrice romana Play Media Company. Dall’autunno del 2008, sempre per Play Media Company, è direttore della rinnovata edizione italiana di Playboy, che assente dal nostro paese ormai da una decina d’anni, vuole riproporre in chiave attuale la linea spregiudicata e anticonformista che caratterizzò la celebre rivista negli anni Settanta sia negli Stati Uniti che in Italia.

La voce di Wikipedia dedicata a Gian Maria Madella si apre con vistosi avvisi sulla sua inaffidabilità e sulla necessità di darle una sistemata: “non neutrale, al limite della promozione”. Dà insomma l’impressione che l’abbia scritta lui (al celebre studio Diagonale di Lucio Testori qualcuno dovrebbe dedicare una voce su Wikipedia adeguata alla sua celebrità), o qualcuno del suo staff, se ne ha uno. Ma dovrà averne uno, se farà il direttore della riedizione italiana di Playboy.

Il Köln Concert è un disco pubblicato dal famoso pianista jazz Keith Jarrett per l’etichetta ECM. Jarrett improvvisò l’esecuzione al Teatro dell’Opera di Colonia nel 1975. L’album è uno dei maggiori bestseller jazz di tutti I tempi, e il più venduto tra I dischi jazz solisti. La registrazione è divisa in tre parti, che durano 26, 34 e 7 minuti.

Era il 24 gennaio 1975, per l’esattezza, e ha venduto tre milioni e mezzo di copie fino a oggi. Lo ha ricordato il Wall Street Journal dedicando alla storia del Köln Concert un pezzo nella pagina degli editoriali e dei commenti, l’altroieri. Quella tournée europea era nata per il desiderio di Keith Jarrett di tornare a passare del tempo con un pianoforte dopo che Miles Davis lo ave acostretto al piano elettrico nel corso della loro collaborazione. La leggenda vuole – come in altre epiche simili – che quel disco sia nato per una serie di accidenti e casi. Jarrett aveva dormito male, era tentato di annullare, il suo pianoforte non arrivò, la registrazione fu eseguita da un tecnico di sua iniziativa.
Confesso di non essermi mai accorto prima di leggere questo articolo, delle risa che si sentono subito dopo le prime note. E che quindi non sapevo che quelle risa si debbono al fatto che le indimenticabili note di attacco del concerto non sono altro che la melodia usata dal Teatro di Colonia per chiamare il pubblico in sala al momento della ripresa o dell’avvio del concerto. Jarrett pensò di iniziare così ironicamente il suo flusso di coscienza di quella sera. E Corinna Da Fonseca-Willheim ha ragione a dire che la seconda parte dell’improvvisazione costruisce una tensione ansiogena quasi fastidiosa, prima di consegnare all’ascoltatore il nuovo meraviglioso e liberatorio passaggio melodico. Tutte le volte che gli hanno chiesto di Colonia, Jarrett ha sempre detto che è stata la cosa di una sera: un’improvvisazione è un’improvvisazione.

Rick Redfern è un personaggio della striscia a fumetti Doonesbury. Lavora come reporter al Washington Post ed è spesso incaricato di raccontare le vicende della Casa Bianca. Rick è un giornalista molto corretto che prende il suo lavoro seriamente ed è sempre in cerca di una grossa storia. Rick ha incontrato sua moglie Jonie Caucus quando lei collaborava con la candidatura al congresso (fallimentare) di Ginny Slade. Cominciarono a vedersi, e con una scelta ardita e discussa per una striscia degli anni Settanta, vennero disegnati a letto assieme poco tempo dopo. Alla fine si sposarono, ed ebbero un figlio, Jeff.

Le storie di Doonesbury sono forse il caso più straordinario e longevo di feuilletton contemporaneo. Garry B. Trudeau le disegna e scrive da trentotto anni, e ha creato un mondo di personaggi che invecchiano e si rinnovano, a differenza di quelli di altre strisce. E poi ci sono tutte quelle cose sul valore letterario, politico e giornalistico di Doonesbury (si cita sempre questa frase di Henry Kissinger: “C’è solo una cosa peggiore di essere presi in giro su Doonesbury: non essere presi in giro su Doonesbury”): Pulitzer compreso.
Rick Redfern è uno dei personaggi di più lungo corso, e ormai ha la sua età. E questo ha contribuito, due settimane fa, al suo traumatico licenziamento dal giornale, nel mezzo dei tagli e della crisi economica. In cerca di un reinvestimento di sé, e di una via di uscita dal trauma, ha aperto un blog: ma la collisione tra un vecchio giornalista e I suoi codici con quelli di internet e le sue volatilità genera casini imbarazzanti e un meraviglioso ritratto dei nuovi corsi del giornalismo. La più grossa storia politica che Rick sta seguendo da giorni è quella per cui Obama in visita alle truppe americane in Kuwait avrebbe giocato con I soldati a basket e infilato otto tiri da tre punti su dieci. L’altroieri comunque sua nipote lo ha linkato: “il mio primo link!”.

 

Altre voci che ho cercato questa settimana:

John Darwin

Bretton Woods

I Promessi Sposi  Capitolo XIII

Robert Frank

Al Smith Diner

Età della Pietra

Deputati XII Legislatura

Brazilian Girls

Acorn

Massimo Cavezzali

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