Frustare il vento

Il tema delle accuratezze grammaticali e lessicali ai nostri tempi è socialmente interessante: l’inclinazione a correggere il prossimo, a indignarsi per una deviazione dalla norma, a fare le pulci – inclinazione a cui ci dedichiamo quotidianamente su molti fronti e in molte occasioni diverse – conosce una sua peculiare e moltiplicata applicazione sull’uso della lingua. Tanto da aver da tempo suggerito il nomignolo di grammar nazi per i più assidui correttori in questo campo, attivi soprattutto su internet in una declinazione soi-pensant dotta del generico trolling da commenti.

Dico che è socialmente interessante perché è appunto un sintomo di meccanismi e insicurezze psicologiche che traboccano nella ricerca continua dell’affermazione di sé, nella competizione con tutto e tutti, nella ricerca istantanea di un riconoscimento: e questi sono aspetti peculiarissimi di questi tempi, e che secondo me definiscono le ragioni di molti dei disastri umani a cui partecipiamo, dalla politica alla vita quotidiana, passando per il giornalismo.

Per questa ragione è ancora più interessante la recente emersione di un conflitto che un tempo era roba da linguisti e riviste specializzate: la pretesa contrapposizione tra “prescrittivisti” e “descrittivisti” nell’uso della lingua. Tre anni fa ne parlammo a Condor, in radio, con lo spunto di un bel libro di Andrea De Benedetti, raccontato qui. Adesso la stessa questione è affrontata su Slate a proposito di una polemica nata sul New Yorker. La lingua è l’inglese ma non cambia la questione: e al di là della polemica di questa volta (tra Steven Pinker su Slate e Joan Acocella del New Yorker che lo ha attaccato), l’articolo su Slate di Pinker (linguista e membro della commissione che si occupa di un importante dizionario) mette nero su bianco un po’ di cose che andrebbero imparate. Ne ricopio e sintetizzo alcune.

– la contrapposizione presunta è tra chi pensa che le regole della lingua debbano essere “prescrittive”, ovvero imporre una correttezza stabilita a monte e da conservare più integra possibile, e chi le concepisce come “descrittive”, ovvero duttili al cambiamento e all’uso che gli umani fanno della lingua stessa, e capaci di codificarlo e assecondarlo.

– in realtà, salvo alcune posizioni estremiste in un senso e nell’altro, gli approcci prevalenti alle regole della lingua sono più sfumati, e mescolano in dosi diverse le due cose.

– la cosa principale da tenere presente è che le regole sono convenzioni. E le convenzioni sono accordi in seno a una comunità che suggeriscono la condivisione di un modo di fare le cose rispetto a un altro non per la sua qualità implicita o perché quel modo sia più efficace: ma perché è più efficace che tutti usino lo stesso. Come guidare a destra piuttosto che a sinistra, per fare un esempio. Un sistema non è migliore dell’altro, ma se si usano tutti e due è un casino.

– le convenzioni della lingua sono condivise e applicate soprattutto in certi contesti – istituzioni pubbliche, giornalismo, scuola, legge, economia, scienza – in cui la loro esistenza facilita la chiarezza e la comprensione e crea un ambiente proficuo alla costruzione di stile e grazia di scrittura, ed elaborazione creativa nei campi più diversi.

– una volta accettato questo, diventa immotivato lo scandalo estetico o morale per le alternative alle regole. Ci possono essere sì parole o formule che non ci piacciono e ci sembrano “brutte”, e ci sono i veri e propri strafalcioni e sbagli da ignoranza, ma questo non c’entra: le deviazioni dalle regole o le alternative discusse (spegni o spengi? il circonflesso o la doppia i su principi? o niente?) sono solo un modo come un altro di dire le stesse cose, ma il modo che le nostre convenzioni hanno scartato. Poteva essere il contrario, e può ancora essere diversamente: fin tanto che chiunque sperimenta modi diversi e comprensibili di dire le cose. Trovare sul dizionario la correttezza di una o di un’altra forma non dimostra che l’altra sia illogica o inferiore. È solo andata così: come sapete, buona parte della correttezza linguistica a cui ci riferiamo oggi con l’italiano viene dal fiorentino per una serie di accidenti storici e letterari che hanno fatto acquisire all’italiano alcuni usi di quella lingua. Le cose potevano andare diversamente per mille ragioni.

– questo non significa che seguire quelle convenzioni non abbia un senso e un’utilità fondamentali: come dimostra l’esempio della guida a destra o a sinistra.

– le convenzioni dell’uso della lingua sono tacite: non c’è un tribunale, non ci sono divieti, non ci sono obblighi scritti. Il consenso è ampio e implicito, ma cambia nel tempo per le ragioni più varie. “Incatenare le sillabe e frustare il vento sono entrambe imprese dell’orgoglio, ostile a misurare i suoi desideri alla sua forza”, diceva già nel Settecento Samuel Johnson, compilatore del più autorevole dizionario della storia della lingua inglese. “E quindi i lessicografi hanno sempre deciso cosa mettere nei dizionari facendo attenzione al modo in cui le persone usano le parole”, scrive Pinker.

– ci sono “regole” che conosciamo da sempre, tradizioni scolastiche, norme prescrittive, che non per questo vale la pena conservare e tutelare. Molte sono state snobbate sistematicamente dai grandi scrittori. “Falsi obblighi proliferano come leggende metropolitane”, scrive Pinker, e provare a smontarli non deve essere visto come un tentativo di abolizione di tutti i concetti di buona prosa. Le leggi sciocche si discutono e si cambiano, come le vere leggi (Pinker cita tra le ragioni che portano all’osservanza di norme rigide e senza ragion d’essere, una sorta di “ignoranza conformista”, per cui si usano delle forme piuttosto che altre per timore della riprovazione altrui, anche se non si conoscono ragioni o convenzioni fondate per quella scelta).

Concludo io. Ci sono in giro due fenomeni polemici, sulla lingua, mi pare (tre, se sommiamo quelli che scrivono lunghi post citando Slate e Debenedetti): uno riguarda i molti che alla comprensione delle evoluzioni della lingua e delle loro ragioni preferiscono il giustizialismo istantaneo, il capro espiatorio conformista (“non si dice attimino!”), il proibizionismo che rassicura e permette di avere un’opinione, quindi di esistere. Sindrome che ci riguarda tutti, e ci rende cretini e capricciosi ogni giorno in dosi diverse. L’altro è un po’ più strutturato, ma ugualmente sterile e pigro: è quello della secolare discussione su ciò che la lingua (e quindi la cultura) starebbe “perdendo” nel corso della sua evoluzione. Dibattito che serve a occupare qualche pagina dei giornali da quando esistono i giornali, ma a nessuno risulta che la lingua esistente non abbia oggi le capacità di chiarezza, eleganza ed efficacia che aveva un secolo fa o due. Probabilmente sono anzi superiori oggi. Perché alla fine la sua evoluzione prevale su ogni nostro orgoglioso tentativo di frustare il vento.

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21 commenti su “Frustare il vento

  1. minimAL

    Banalmente: ci si può attenere a regole rigide ed essere rivoluzionari, come anche fare il rivoluzionario e scrivere fesserie.
    Ancor più banalmente: la nostra è una lingua elegante, moderna, ricca di suggerimenti e di potenzialità. Del resto, curo l’account twitter di un’azienda grossettina (ops!), e l’italiano mi è sempre venuto in soccorso; quello considerato “polveroso”, intendo.
    A me sembra che lo sfascio e la banalizzazione dell’itaGliano siano più frutto di ignoranza e sciatteria mascherate da modernismo fighetto, più che una ricercata e studiata volontà di andare oltre le convenzioni.
    Certo, sono anni che seguo te e “quello anziano”, e dopo due righe mi addormento: colpa vostra, però, non della lingua o del linguaggio che usate (male).

  2. Paolo Arm.

    La lingua è sicuramente un universo interessante, e come tutte le cose da esplorare ci sarà sempre qualcuno che intraprenderà il viaggio in modo diverso dal nostro.
    Di sicuro il prescrittivismo è qualcosa che, se ancora resiste, lo fa in falde limitate e autoconservatrici: è dai tempi di De Saussure che si è rivalutata la spontanea creatività linguistica dei parlanti. Ma in realtà i piani rimangono sempre due (dicotomia saussuriana, appunto): la ‘parole’, spontanea creazione di chi parla, e la ‘langue’, quel codice universale condiviso da cui attingono i parlanti per formulare frasi ed espressioni. Credo che non possa esistere discussione su fatti linguistici senza considerare quest’opposizione: è vero che affermare “questo si dice, questo non si dice” non ha molto senso, ma da qui a dar adito a una specie di anarchia creativa autogiustificante ce ne corre.
    Anche perché la lingua (che alcuni, anche Pinker credo, definiscono come un organismo) ha le sue belle armi di difesa e di evoluzione: economicità, eufonia, praticità, espressività. Gli “errori” – cioè devianze della norma in uso in un determianto momento – dei parlanti, per essere in qualche modo legittimati, devono finire per essere condivisi, e quindi diffondersi a tutti gli strati linguistici (ci sono errori che ci riescono, altri no): prima di Manzoni il soggetto di terza persona era solo “egli”, poi dopo i Promessi Sposi si è cominciato ad usare anche “lui” (e notare che Manzoni usava spesso “gli disse”, intendendo “a lei”: come la mettiamo?).
    Inoltre la lingua non peggiora mai, semplicemente cambia, semmai rimangono peggiori quelli che non cambiano con essa, ma si sa che la lingua é quanto di più razzista, o nazista, ci possa essere (cfr. Pygmalion). Ed è logico che ci viene naturale difendere il modo in cui noi diciamo una cosa rispetto a come la dicono gli altri, esattamente come riteniamo eccentrici gli inglesi perché guidano a sinistra.

  3. turycell

    Due cose mi colpiscono su quest’argomento.

    Sui siti dov’è più diffusa la cultura del linguaggio corretto (ivi compresi questo blog e ilPost), molti prevengono i grammar nazi correggendo da sé i propri errori commentando il proprio commento, di solito per scusabilissimi typo. Mi fa un po’ tristezza che sia necessario (o considerato necessario) farlo.

    Poi, molti correggono l’istintivo “a me mi” scrivendo solo “a me”, e nel 50% dei casi trasformano un pleonasmo in un errore: “a me colpiscono due cose.” Brrr…

  4. Flavio Pas

    Mi ritengo personalmente coinvolto in questo post e in alcuni commenti.
    Potrei esser infatti definito “grammar nazi” e forse lo sono, non amo queste categorie, non saprei. I refusi non mi danno problemi, ed infatti non li correggo praticamente mai. Gli errori che correggo sono quelli fondamentali. Perché? Per l’affermazione di me? Mah, seppur insicuro psicologicamente, come definito chi lo fa nell’articolo, non lo faccio per affermarmi. Lo faccio perché sono un militante per natura. Credo, o almeno voglio credere, che il mio contributo alla società sia ponderabile. Che quindi una mia correzione possa aiutare il corretto, non screditarlo. Per puro tornaconto personale, non fraintendetemi, spesso infatti rileggo qualche commento/articolo di chi ho corretto, e spero di potermelo gustare di più. Di vederlo corretto. Sono un esteta. E forse, probabilmente, pure un reazionario in questo campo.
    Gli errori sono errori quando si fanno inconsapevolmente, “l’istintivo “a me mi”” è un pleonasmo solo ed esclusivamente se usato con questa funzione. Vedere articoli giornalistici che scrivono “ogni hanno” non li leggo o meglio li evito. Perché è un requisito minimo il padroneggiare la lingua per un giornalista.
    Quindi se devo essere un “reazionario” o un “grammar nazi” perché detesto vedere la lingua, che è anche mia, distorta per ignoranza, beh, ben venga. Ma questo non significa non sostenere le innovazioni.

    Il fatto che ci sia un’evoluzione non implica che l’evoluzione sia il massimo potenziale. Se A < B < C dove A è la lingua 100 anni fa e B la lingua oggi non è detto che non saremmo potuti arrivare ad un livello C.
    PS: Scusate per la lunghezza del commento.

  5. uqbal

    Forse non dovrei trarre dal fenomeno conclusioni sull’Italia, visto che il fenomeno parrebbe abbastanza globale, però in questo prescrittivismo grammaticale ci vedo un bel segno del nostro conformismo: esiste un solo modo di fare le cose, quel che è diverso è automaticamente disprezzabile, le innovazioni non servono.
    E questo messaggio è esattamente quel che passa nella scuola italiana. Gli insegnanti (e molti umanisti italiani in genere) illustrano la grammatica come un codice di comportamento, e poi selezionano gli iniziati, premiandoli coi bei voti. Non è un caso se nel ’69 M. Barbagli e M. Dei se ne sono usciti con un libro intitolato “Le Vestali della scuola media”.
    Poiché il principio di “correzione” in definitiva non è scientifico -e nemmeno grammaticale-, ma sociale, gli ipercorrettisti scadono spesso nel ridicolo. Qualche tempo fa si prendeva in giro chi dice “entrar dentro” o “uscire fuori”, per la ragione che non si può “entrar fuori”. Nessuno può aver trovato questa regola da nessuna parte, perché nelle grammatiche non c’è. L’impulso viene quindi da un’altra parte: la volontà di tirare una linea. Gli adolescenti che commentano gli strafalcioni altrui su fb forniscono una bella dimostrazione del fenomeno: i correttori vengono corretti, poi entrambi se la prendono con qualcun altro, poi qualcuno tira fuori qualche ragionamento pseudo-logico per spiegare perché secondo lui il suo modo di esprimersi è assolutamente corretto, e così via.
    La cosa più curiosa però è il fenomeno che io definirei della “confabulazione”: le Vestali della lingua non hanno una spiegazione chiara del perché la formula “giusta” sia meglio di quella “sbagliata”. D’altronde, il vantaggio di scrivere “qui” rispetto a “quì” non è che sia granché evidente. Però le Vestali non potranno rispondere semplicemente non lo so, perché una volta che si sono messe sul piedistallo rischiano di doverne scenderne, se ammettono la benché minima ignoranza. E dunque è un fiorire di “logiche” (“A che serve l’accento su un monosillabo come “qui”?”, nella speranza che nessuno citi i monosillabi accentati come “già” o “giù”), di “eleganze” o meglio ancora di “eufonie”, ché dire che “suona bene” è troppo poco.
    Non è che mentono: nell’ansia di trovare una risposta trovano la prima che ha una parvenza di verosimiglianza, e ci credono loro stessi.
    Il commento di Flavio Pas ne è un esempio.

  6. sombrero

    Sottoscrivo quanto detto da minimAL. La variazione è “lecita” (occhio alle virgolette eh) se esercitata con la coscienza di essere tale, altrimenti è ignoranza pecoreccia.
    E ha pienamente ragione anche Flavio Pas. Non è pensabile che ogni deviazione dalla norma possa essere considerata come un’innovazione, e tanto meno come innovazione migliorativa. Se coniugare male un verbo è innovativo, allora lo sono anche una lampadina di legno o un’incudine di cristallo. E poco importa se lo fanno in centomila o in un milione (a meno che, ovviamente, non vogliamo cedere a orrori tipo “la maggioranza ha sempre ragione”).

  7. Robdale

    Vorrei spezzare una lancia a favore dell’ignoranza pecoreccia, che è l’ambito che mi appartiene e in cui mi muovo meglio. Il mio mestiere consiste nello scrivere molto, e faccio un sacco di errori: rossi, blu, di tutte le sfumature dell’arcobaleno. Ma ho un sacco di buone idee e, a volte, vengo pagato anche molto bene, nonostante tutto. Per me la scrittura, il linguaggio è un mezzo per raggiungere un obiettivo. Come quando prendo l’auto. Come quando guido l’auto, mi capita di prendere male una curva, di sbagliare strada, di fare qualche incidente, di non ricordare qualche segnale. Ma arrivo a destinazione, anche se probabilmente non ho avuto dei buoni maestri, sia alla guida che alle elementari. Ho un’amico correttore di bozze, anche di scrittori famosi, che mi racconta di errori da quinta elementare (come i miei), e mi tira un po’ su di morale. Se si vuole insegnare Italiano come mestire, allora anch’io mi schiero tra i grammar nazi, è chiaro. Ma vorrei ricordare a tutti i puristi, che alcune delle più grandi invenzioni, nei campi più svariati, sono nati grazie ad errori, ad incomprensioni, ad “azzardi”, ad un tipo di energia che si genera solo dallo smarcarsi dalle regole. È vero, non si può frustare il vento, come uno scoglio non può arginare il mare.

  8. Flavio Pas

    uqbal, non ho nessuna ansia. Ed anzi, se il mio commento ha, come dici, solo una parvenza di verosimiglianza ti prego di mostrarmi in quale modo si discosta dalla realtà.

    Scrivere “uscire fuori” non è sbagliato, ma se immotivato lo diventa.
    La frase la si costruisce partendo dal grado zero, consciamente o meno. Come potrebbe essere “io esco”. Dunque perché aggiungerci la parola “fuori”? Per quale motivo devi aggiungere parole che non dicono niente? Se le usi per enfatizzare e ne sei cosciente bene, se invece lo fai perché ti esce naturale, pace. L’errore in sé non è un problema è il mancato ragionamento che porta all’errore il problema. Quindi il tuo discorso ben poco ha a che fare con quanto dico io. Io non parlo di giusto o sbagliato, semplicemente ritengo che prima di scrivere bisogna pensare.

    La diversità non è un valore in quanto tale. Non perché si rifiuta qualcosa che si debba rifiutare tutto. Mi sembra una forzatura il tuo ragionamento, ed anche una bella generalizzazione ad essere onesti.
    Inoltre, giusto per completezza di informazione, sono un estimatore della poesia futurista. Giusto perché si capisca la differenza tra ignorare le regole e il volerle ignorare pur conoscendole.

  9. wiz.loz

    C’è un uso scorretto della lingua che trovo insopportabile e che non smetterò mai di combattere e correggere: l’uso del congiuntivo imperfetto con funzione esortativa, che è sbagliato ed orribile, degno solo della parlata “alla Di Pietro”.
    Esempi:
    – “Andassero a quel paese” è sbagliato! In italiano si dice, ad esempio: “vadano a quel paese”.
    – “Incominciassero i politici ad abbassarsi lo stipendio” è sbagliato! In italiano corretto si dovrebbe dire: “che incomincino i politici ad abbassarsi lo stipendio”.

  10. trentasei

    Scusate, ma ci sono anche elementi che portano mancata chiarezza nel discorso, la cui mancata osservanza creano confusione. Lì come ci si dovrebbe comportare?
    Es. oramai è diffuso l’utilizzo di piuttosto che come “sia” mentre è un comparativo di preferenza: “preferisco mangiare il pollo piuttosto che l’insalata” significa che io preferisco il pollo all’ insalata. Invece con l’utilizzo recente signifca che mi piacciono entrambi uguale! E questo mi ha portato molte volte a incomprensioni con fornitori che mi proponevano “questo piuttosto che quello” e io non capivo perchè poi continuavano a parlarmi di “quello” visto che come costo non era più conveniente, salvo poi fare la domanda “ma quindi sono opzioni qualitativamente equivalenti?” / “sì”. Ecco. Poi mi ci sono abiutato, anche perchè poi ci sono i virtuosi del “piuttosto che” che ne inanellano decine (e allora capisco che non mi sta facendo la superclassfica ma un elenco..) ma secondo le regole di Pinker cosa fareste?

  11. aghi_di_pino

    La Forma o la Sostanza? Seguo con interesse le vicende della nostra lingua e i commenti di chi si accalora difendendola od attaccandola. Non posso dire di non essere grato verso chi la utilizza in modo convenzionale e quindi più comprensibile. Ed anche più elegante. Ma non c’è nulla da fare: il fascino che esercita su di me chi sa cosa dire non ha paragoni, anche in assenza di congiuntivi correttamente coniugati. Molto meglio ascoltare cose interessanti, raccontate magari da chi ha vissuto e non ha avuto molto tempo per aggiornare il proprio italiano, che sentire chi, con italiano forbitissimo, parla ore senza dire nulla. Anche un solo Neil Young dietro una chitarra, invece di mille Satriani.

  12. erre.bee

    Il problema è comunicativo: la maggior parte delle persone che commette errori grammaticali (non refusi, ma errori ripetuti, quali ho senza acca per il verbo avere, é senza accento per il verbo essere ecc..) sostiene che “l’importante è che passi il messaggio”. Bè, non è proprio così: se a me un amico scrive “lo fatto”, ci metto un minuto in più per capire quello che mi vuole dire. Non è solo un problema di tempo, ma anche di incomprensione: se al posto del punto di domanda vengono inseriti i puntini di sospensione, prendo quella frase come affermazione e non come interrogativa. C’è poi da distinguere chi non ha studiato e chi sì, ma non è una scusante, è che non è un campo da approfondire, secondo molti, proprio perchè tanto l’importante è “che si capisca il senso”.
    E’ vero che la lingua va rivista, amo i neologismi e mi piace vedere l’evoluzione della lingua, non credo sia fondamentale correggere qualcuno che scrive perchè al posto di perché, ma se scrive perche…sì, lo trovo un fenomeno fastidioso e da arginare.

  13. MAGO

    fatto l’esame di coscienza di lettore, vi dico: avete presente la sensazione di quando state ballando beatamente e vi arriva, inaspettato, un pestone o un calcio allo stinco? Ebbene, quella sensazione è la stessa che provo quando mi imbatto in un uso linguistico che non condivido: certo che si può far finta di niente, ma rimane il dispiacere di aver perso la connessione, di essere in disaccordo con l’autore dello scritto che si sta leggendo; ed esprimere la critica rappresenta spesso il tentativo di recuperare il rapporto. Altre volte, il lettore percepisce dei segnali di “allarme”, si rende conto di provenire effettivamente da un’altra scuola (altra cultura, altro mondo) e tende a diffidare del racconto altrui. Tutto ciò per dire che chi scrive, non dovrebbe mai turbarsi più di tanto a causa dei commenti che riceve

  14. fafner

    Con tutto questo, ci ricordiamo che già gli analogisti alessandrini si prendevano per i capelli con gli anomalisti della scuola di Pergamo? E che più della metà dello Zibaldone pare scritta da un grammar nazi troll?

  15. sombrero

    @Robdale
    Se gli errori sono così emozionanti e forieri di splendide avventure, sai spiegarmi cosa pagano a fare il tuo amico?
    Grazie.

  16. pirataclo

    @ Flavio Pas:
    Occhio alle “d” eufoniche:
    “ed infatti non li correggo”; “Ed anzi, se il mio commento”; “ed anche una bella generalizzazione”.

    “Vedere articoli giornalistici che scrivono “ogni hanno” non li leggo o meglio li evito”.
    Forse: giornalisti che scrivono articoli in cui…

    “uqbal, non ho nessuna ansia”
    L’inizio del periodo vuole la lettera maiuscola.

    “Scrivere “uscire fuori” non è sbagliato, ma se immotivato lo diventa”
    Prima dell’avversativa è preferibile omettere la virgola.

    “L’errore in sé non è un problema è il mancato ragionamento che porta all’errore il problema”
    Allora: dopo “non è un problema” ci vorrebbero i due punti o, quantomeno, una virgola. È poi preferibile non ripetere lo stesso termine – “problema” – nel medesimo periodo.

    “Io non parlo di giusto o sbagliato…”
    Non c’è bisogno di specificare “io”; e ciò sia se non conosci le regole, sia se le conosci e vuoi infrangerle.

    “Non perché si rifiuta qualcosa che si debba rifiutare tutto”
    Manca l’indicativo presente, terza persona singolare, del verbo essere dopo “Non”.

    Caro Flavio Pas, sono o no un vero grammar nazi?

  17. Robdale

    @sombrero. La tua domanda (chiaramente ironica) è il paradigma del dibattito. Se stiamo tutto il tempo a spuntare i chiodi, questi non verranno mai usati per costruire qualcosa di buono. Diciamo che una volta raggiunto un livello grammaticale da terza media, io non mi ritengo offeso, dopodiché penserei più al contenuto. Altrimenti, come ci spiega pirataclo (grande!), passiamo la vita a fare a gara a chi trova più difetti nel dito che indica la luna (tralasciando quest’ultima). Una interessante attività ludica, sicuramente.

  18. Flavio Pas

    Occhio alle “d” eufoniche:
    “ed infatti non li correggo”; “Ed anzi, se il mio commento”; “ed anche una bella generalizzazione”.

    Purtroppo ho il vizio di abusarne, ne sono cosciente. Le trovo foneticamente funzionali.

    “Scrivere “uscire fuori” non è sbagliato, ma se immotivato lo diventa”
    Prima dell’avversativa è preferibile omettere la virgola.

    Scelta stilistica, al pari delle varie volte in cui scrivo “, e”.

    “L’errore in sé non è un problema è il mancato ragionamento che porta all’errore il problema”
    Allora: dopo “non è un problema” ci vorrebbero i due punti o, quantomeno, una virgola. È poi preferibile non ripetere lo stesso termine – “problema” – nel medesimo periodo.

    Refuso e scelta voluta.

    “Io non parlo di giusto o sbagliato…”
    Non c’è bisogno di specificare “io”; e ciò sia se non conosci le regole, sia se le conosci e vuoi infrangerle.

    La presenza di un soggetto esplicito, anziché sottinteso, diventa errore a prescindere?
    Ammaniti, Salvadores, Scalfaro e Gaber ne hanno fatto us0 nella medesima maniera, per citare i primi che mi vengono in mente.

    Caro Flavio Pas, sono o no un vero grammar nazi?
    Ti meriti il “titolo” di gammar nazi. (Non ho riportato i refusi)

  19. sombrero

    @Robdale
    E certo. Ma allora facciamo eseguire alla Scala le sinfonie di chi sa appena distinguere diesis e bemolle oppure, se preferisci, allestiamo una personale di un tizio che ha imparato ieri a disegnare il sole che ride (ma gli viene benissimo eh). Cosa stiamo lì a spuntare i chiodi, che diamine: quello che conta è l’intenzione.
    Più seriamente: quello che ha fatto Pirataclo è “spuntare i chiodi”, correggere qualcuno che scriva “un’uomo” o “avrebbe stato” no. Non so se ti è chiara la differenza. E non dirmi che queste cose non succedono, perché non più di due o tre giorni fa ho sentito alla radio una presunta rappresentante della cultura (perdonami ma non ricordo né il nome né a che titolo) usare un verbo in un modo che mi ha procurato un effetto “unghie sulla lavagna” non indifferente. E non parliamo dei quotidiani on line che sono dei veri e propri ricettacoli di orrori (“gli R.E.M.”, “Harward”, “Bryan Ferri”, “i vulcani irlandesi”, “polizia nelle favele”, “rivelati alcuni indizzi”, “serve un’aziendalista” e potrei andare avanti per giorni).
    Tu continua pure la tua lotta per portare la fantasia al potere, io continuo a pensare che la fantasia vada applicata una volta imparate molto bene le regole. Non è che il tuo ragionamento sia tutto sbagliato, anzi, ma se lo applichi a un punto troppo basso della scala, finisci solo per incentivare cialtroneria e approssimazione.

  20. Robdale

    @sombrero. Condivido quasi in pieno il tuo ultimo commento. Bisogna trovare un punto, chiaramente non troppo basso. O forse più punti, nel senso che se mi trovo in un contesto, chessò, di economia, mi posso aspettare (e perdonare) qualche errore in più rispetto ad un contesto letterario. Non sono così estremista come mi sono dipinto, nè sono per la totale assenza di regole. Mi da solo un po’ fastidio che, a volte, in questo paese si è molto tignosi verso le piccole cose e si trascurano quelle più importanti. Ad esempio, una prof della scuola di mio figlio si è lamentata più volte con noi genitori perché i ragazzi anadavano a scuola con i capelli bagnati, tralasciando completamente il fatto che, alcuni di loro, usavano il motorino senza casco!

  21. pla8

    Per i grammar nazi fieri di essere nazi:

    Se è lo spirito, se è la conoscenza a fare dell’uomo il signore della terra, non esistono allora errori innocui né tanto meno errori rispettabili, errori santi. E a consolazione di coloro che in qualsiasi modo e occasione dedicano energie e vita alla nobile e così ardua lotta contro l’errore, non posso fare a meno di aggiungere qui che l’errore, al pari delle civette e dei pipistrelli di notte, può aver buon gioco finché non vi è la verità; ma ci si può prima aspettare che le civette e i pipistrelli caccino indietro il sole verso oriente piuttosto che la verità, una volta conosciuta e chiaramente e pienamente enunciata, sia a sua volta respinta, in modo che l’antico errore, indisturbato, prenda ancora una volta ampio posto. È questa la forza della verità, la cui vittoria è difficile e faticosa ma, in compenso, una volta riportata, non può più esserle strappata.
    ——————
    @sofri
    qui sei in minoranza… fuori di qui non credo

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