Siamo già nel post della post-verità

Piuttosto che riscrivere in altre forme le stesse cose, a proposito dei dibattiti di questi giorni sull’informazione accurata, sulla scomparsa dei fatti, sulla “post verità”, su come siano stati possibili Brexit e Trump, incollo qui qualcosa da Notizie che non lo erano, il libro: buone un anno e mezzo fa come adesso, o forse più buone adesso.

Il mondo si è rimpicciolito, e va smentita la leggenda autoassolutoria fatta circolare da molti giornalisti delle testate tradizionali per cui internet sarebbe responsabile di un peggioramento dell’accuratezza dell’informazione: internet ha distrutto l’oligopolio dell’informazione e ci ha permesso di accorgerci che in tanti casi sotto il racconto del mondo che riceviamo non c’è niente. Prima vedevamo l’articolo e il suo contenuto, ora siamo in grado di vedere rapidamente come è stato scritto, quali sono le sue fonti e quali altre cose si dicono e scrivono sullo stesso fatto. L’informazione probabilmente non è diventata meno accurata, è solo che prima non ce ne accorgevamo: perché nel 1989 ci volevano gli articoli di altri giornalisti e inviati a Washington per far sapere che una ricostruzione era infondata.

Ma certo, internet ha moltiplicato per cento o per mille le informazioni che riceviamo ogni giorno, e di conseguenza anche le informazioni false, le bufale, le sciocchezze. E abituati come eravamo all’ingannevole ma confortevole idea che prima non ci fossero, fatichiamo ad adattarci alla nuova consapevolezza e ci chiediamo come sarà possibile orientarsi e distinguere il falso dal vero.

Io penso che in buona misura non sarà possibile, salvo farla diventare per ognuno un’attività quasi professionale e impensabile. Ritengo che dovremo abituarci all’idea che la buona informazione sia un servizio carente e parziale. Noi viviamo in società in cui, per nostra fortuna, siamo stati viziati a pensare che l’esistenza e qualità di alcuni servizi sia garantita, con diversi gradi di soddisfazione. Dove se stai male ci sono medici e ospedali a cui puoi accedere, se sei vittima di un’ingiustizia ci sono polizie e leggi e tribunali che ti tutelano, dove i tuoi figli hanno scuole che li preparano al resto della loro vita, eccetera. E dove ci sono mezzi di informazione che ci fanno capire le cose, e rendono le nostre società migliori perché meglio informate.

Ma ci sono luoghi del mondo in cui questi servizi sono invece carenti o assenti, estranei alla vita quotidiana delle persone. Dove se ti ammali anche di una cosa curabile, nessuno ti cura e muori. Dove un sopruso vince e non puoi chiedere giustizia a nessuno. Dove nasci analfabeta e cresci analfabeta. E le persone sono avvezze a queste carenze e vivono prendendone le misure. Evitando i posti in cui ti possono picchiare e derubare, imparando soluzioni dilettantesche per curarsi, condividendo con i vicini insegnamenti e lezioni utili. Arrangiandosi.

Io credo che – fatte le ovvie e dovute proporzioni – questo sia lo scenario in cui dobbiamo disporci a vivere rispetto al servizio dell’informazione: imparare a cavarcela, muovendoci con diffidenza e sapendo che dovremo arrangiarci, se vogliamo capire cosa sia vero e cosa sia falso in un mondo in cui c’è un sacco di falso, ben stampato.

Il pluralismo che serve è quello per cui accanto a moltissima informazione sciatta, irrilevante ed egocentrica ci sia anche un’offerta differente, in cui allarmismo, titolismo e ricerca di un ruolo e di un posto in classifica non siano i criteri prioritari con cui rivolgersi ai lettori. In cui le notizie siano, nei limiti del filosoficamente possibile, vere.

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