Gli italiani non sono peggiori oggi di come erano un tempo. Né si deve risolverla limitandosi a dire che il popolo sarebbe bue, a meno di non depurare questo giudizio da ogni sospetto di presunzione intellettuale affermando quindi che siamo tutti popolo, e tutti buoi: è questo è abbastanza vero, ma lo è sempre stato. Invece qualcosa è cambiato. Il cambiamento vero riguarda le classi e i soggetti storicamente e spesso ingiustamente privilegiati, storicamente «illuminati» e storicamente investiti dall’obbligo di essere modello per gli altri. Venivano inevitabilmente dalle classi colte – colte quasi sempre per loro fortuna ed eredità – quelli che hanno guidato i progressi civili, culturali e scientifici del genere umano e delle nazioni democratiche; la loro educazione li aveva responsabilizzati sul loro ruolo: «da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Sono stati gli intellettuali, i politici, i leader del passato a guidare noi popoli verso il progresso, a modellare i nostri valori e definire e insegnare le cose che riteniamo giuste. A giungere a una condivisione su cosa fosse auspicabile e cosa sbagliato e a trasmettere questi sentimenti agli altri: ovvero persone che invece non avevano avuto le fortune e i privilegi dei loro simili nelle classi dirigenti e che meritavano una qualche forma di compensazione riuscendo a diventare a loro volta modelli e leader.
Non ci piace sentircelo dire, ci sembra ingiusto e ci si prepara in gola la frase «si credono migliori degli altri». Ma la domanda è: lo sono? Ci sono persone che rispetto a determinati criteri sono migliori di altre, o no? O sì e non si può dire?
Gli italiani del passato non erano migliori di quelli di oggi. Ma le élite avevano insegnato loro ad avere vergogna dei propri difetti, delle proprie meschinità, delle proprie cattiverie. O almeno a considerarli sbagliati. Gli avevano insegnato che c’era il giusto e lo sbagliato (con molti dubbi in mezzo, ma anche diverse certezze), e se anche razzolavano male conoscevano le buone prediche.
Oggi non lo insegna più nessuno. Lo sbagliato è stato sdoganato. La mediocrità non conosce vergogna né sanzione, anzi, è sovente premiata. In Italia le classi e le persone deputate a essere modello per gli altri se la sono data a gambe, quando non hanno a loro volta preso a modello le mediocrità più comuni. I leader politici eletti non sono più persone «migliori di noi» (e votate per questo), ma uguali a noi (e se ne fanno un vanto), o persino peggiori di noi (con nostro compiacimento e rassicurazione). Se un tempo desiderare il male altrui era sanzionato da un sistema di valori trasmesso dalla cultura nazionale, oggi alcuni dei pensatori e leader di riferimento persino li promuovono, l’egoismo e il desiderio del male altrui. La mediocrità. La conservazione del peggio.
Non parlo solo della politica, sarebbe facile e già ci pensano in molti. Parlo dei giornalisti, degli intellettuali, di chi usa la televisione, degli scrittori. Di tutti quelli che parlano agli altri. Persino di certi insegnanti. Di tutti coloro che nel loro ruolo hanno il potere di stabilire modelli, e stabiliscono modelli pessimi. Facendo politica vanitosa, giornalismo mediocre, televisione insulsa, offrendo esempi vili e avidi. Per quanto voi vi crediate assolti, come diceva De André.
Quello che è successo – assieme ad altri cambiamenti che riguardano tutto il mondo e anche il rapporto con noi stessi e la nostra insicurezza pubblica e privata: ne parlo più avanti – è che coloro a cui attribuivamo con minore o maggiore convinzione una più qualificata capacità di occuparsi dei destini nostri e dell’Italia e per questo votavamo ed eleggevamo a nostri rappresentanti hanno progressivamente fatto di tutto per deludere questo investimento. Dall’unità d’Italia in poi, retaggi di vecchi sistemi di potere mai cresciuti in senso democratico e di gestioni mafiose e traffichine delle cose pubbliche sono andati radicandosi sempre di più nelle amministrazioni e sono spettacolarmente traboccati negli anni cosiddetti di Tangentopoli: quando ci siamo accorti che forse erano sì più capaci e competenti di noi, ma non c’era da fidarsi. Miravano a fregarci. La priorità è allora diventata un’altra, rispetto al riconoscimento delle competenze politiche e amministrative: è diventata poterci fidare, poter riconoscere meglio il potenziale inganno, ed evitare che quelli che eleggevamo non fossero una classe lontana ed estranea che curava i propri interessi e il proprio potere anche quando sapeva badare almeno in parte a quelli del paese. Ci siamo buttati su quelli che conoscevamo, che erano come noi, che ci pareva di poter tenere d’occhio o almeno che sapevamo capire e leggere meglio anche nelle loro bassezze e inadeguatezze. Votavamo per persone che credevamo migliori di noi, siamo passati a votare per persone che ci sembrano uguali a noi, quando non addirittura peggiori. È andata a finire che oggi i nostri rappresentanti si chiamano così perché chiediamo loro non di rappresentare i nostri sogni e bisogni, ma di raffigurare i nostri difetti. Ci «rappresentano». «Non temo Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me», è la famosa geniale considerazione di Giorgio Gaber. E se qualcuno prova a ricostruire un discorso e una politica basati su progetti pedagogici piuttosto che demagogici gli vengono scaricate addosso con ignominia e violenza le devastanti accuse di elitarismo, presunzione intellettuale e superiorità morale. E a quel punto ha chiuso.
Nel 2009 è uscito un libro molto bello in cui Oreste Pivetta ha raccolto in forma di lunga intervista i pensieri di Goffredo Fofi sullo stato dell’Italia e sulla sua storia recente. Fofi usa efficacemente la formula «minoranze etiche» per definire qualcosa che somiglia alle élite che cerco di immaginare qui e per distinguerle da quelle che le hanno sostituite e dalle loro inadeguatezze. Dice Fofi che gli intellettuali sono oggi «divisi in caste, sottocaste e lobby, alle quali tutto può interessare tranne che mettere a repentaglio i propri privilegi – di nascita e di collocazione sociale conquistata – per sostenere concretamente la causa degli oppressi [Fofi aggiorna la categoria degli oppressi citando gli “oppressi della coscienza, tutte le persone che vivono in una condizione di anomia morale o di servitù materiale”: ma potete anche vedere l’Italia e le sue condizioni come l’oppresso in questione, N.d.A.]. E con “intellettuali” intendo anche i grandi pensatori che sanno interpretare i cambiamenti e aiutarci a reagire, indicare le strade possibili dell’intervento singolo e collettivo. Pochissimi lo fanno, per lo meno nel mondo occidentale dove il privilegio è assoluto». Fofi continua così: «Rompere questi meccanismi, di cui l’università offre un esempio, dovrebbe essere uno dei compiti delle minoranze etiche. Queste minoranze hanno una storia e hanno dei compiti che cambiano secondo le varie epoche».
Andando dietro a questi pensieri, si rischia di arrivare sbadatamente a concludere che sia la democrazia la radice di questo percorso inesorabile. Fino a che la democrazia era giovane e incompiuta, se ne mediavano le richieste con oligarchici interventi correttivi. I leader politici si caricavano di un ruolo di indirizzo dei bisogni di tutti: come dice Beppe Severgnini, si chiamano «leader» per qualche ragione: se avessero dovuto seguire quello che gli elettori chiedevano loro si sarebbero chiamati «follower». Si provava a «fare cultura» in tv, si cercava di costruire politiche illuminate e impopolari, si chiamava «missione» quella del giornalismo eccetera. Poi la democrazia – e la sua forma mercato – hanno prevalso (in altri paesi, i limiti e i principi sono stati scritti più solidamente che da noi, e resistono meglio, ma a fatica): e ora si offre solo quello di cui c’è domanda prevalente, per farsi eleggere, per fare share, per vendere giornali. O anche semplicemente per farsi adulare e apprezzare, bassa demagogia, trionfo delle vanità immediate. Nessuno vuole più essere ricordato. Ammirato, subito. Però no. Non dobbiamo concludere, andando dietro a questi pensieri, che la democrazia sia la ragione del disastro perché genera un meccanismo del consenso e rende I follower padroni dei leader. La democrazia come la apprezziamo è una cosa diversa da quella che viene predicata da molti suoi presunti protettori: conosce limitazioni e contromisure sagge contro l’abuso delle maggioranze e dei voleri popolari, che bilanciano «la storica, fisiologica propensione della democrazia a fare della medietà un valore» La nostra stessa Costituzione limita l’uso dei referendum, prevede maggioranze qualificate, «contiene» gli abusi di democrazia. Ma tutto questo è cambiato, in Italia, e non funziona più.
Era una democrazia, è diventata una demagogia.
(Un grande paese, 2011. Il capitolo intero)
Il cupo pessimismo della ragione. Guardando indietro, il cupo pessimismo della ragione nelle analisi degli anni settanta/ottanta, quando il blocco di potere di centro destra sembrava impossibile da scalfire. Quindi la meteora di un signore decisamente più furbo dei democristiani, tale Bettino..Poi arrivò tangentopoli, sogni, speranze, ed alla fine la consegna del paese nelle mani Silvio e compagnia bella. La ragione, cupamente pessimista, mi ha sempre suggerito che ormai il fondo era stato raggiunto e da lì non si poteva che risalire. Oggi la mia ragione, un po’ stanchina e depressa, mi suggerisce di evitare di sprecare tempo ed energie nel tentativo di cambiare le cose, pur nel mio piccolo, e di dedicarmi anima e corpo al mantenimento dei due figli all’estero, affinché tramite lo studio possano costruirsi una vita lontano da questa pessima ed irredimibile italia. Al giornalista mi viene da chiedere, proprio in forza delle parole usate per descrivere i traditori: vede ancora uno spiraglio, una sia pur minima chance di miglioramento per l’italia?
…”Poi tutto questo, di colpo, finì. Nel 1969 cominciò ad andare in onda su Radio1 “chiamate roma 3131”. E il mondo secondo me, da quel momento, cambiò. Era una trasmissione dove succedevano alcune cose assolutamente nuove: tanto per cominciare, il conduttore parlava moltissimo, cioè non si limitava ad annunciare le canzoni, ma tra una canzone e l’altra parlava. Parlava di quel che gli pareva, senza un filo logico; diceva un po’ quel che gli veniva in mente in quel momento. O almeno questa è l’impressione che io ricordo, con un certo senso di fastidio: perché uno che parla senza seguire un filo, alla radio, mi ricorda le persone in treno o le amiche di mia madre in salotto, tutta gente che, per l’appunto, parlava senza avere niente di preordinato da dire, che avesse cioè un filo logico ed un fine preciso.
La seconda cosa nuova era ancora più straordinariamente nuova: il pubblico degli ascoltatori poteva intervenire! Poteva telefonare alla trasmissione e parlare in diretta con in conduttore (che era Gianni Boncompagni)! Chiamava Roma 3131, appunto, ed entrava nella radio dicendo anche lui quel che gli pareva, anche solo chiedendo di poter ascoltare una canzone e dedicarla ad una tal persona.
Fu l’inizio di una valanga che travolse il sistema radiofonico. In quegli anni Settanta si aprirono decine e decine di radio locali, anche dette radio libere, che si fondavano essenzialmente sul principio, nuovo, di essere accessibili, previo telefonata, agli ascoltatori.
Allora non lo capii, ma adesso mi è chiarissimo: iniziava una nuova era. La gente comune, di colpo, poteva intervenire, Tutti, senza distinzione. Prima alla radio, poi via via alla tv e sui giornali. Iniziò l’Era dell’Intervento, se posso dire così.”… (da Togliamo il Disturbo, di Paola Mastrocola)
Poteva telefonare alla trasmissione e parlare in diretta con in conduttore (che era Gianni Boncompagni)!
Paola Mastrocola non ricorda bene: almeno all’inizio, il conduttore era colui che aveva ideato il programma, Franco Moccagatta.