Io e il Papa a Sarajevo

Una mattina sì e una no, a Spalato si danno appuntamento la nave partita la sera prima da Ancona e il sole che se ne sbuca dalla parte opposta. Coi marinai che gettano le cime e i comandanti che governano l’attracco, la luce abbronza metro dopo metro le case della città.

A Spalato venni la prima volta nel ‘94. Mio padre era a Sarajevo da diverse settimane, bloccato dalla chiusura dell’aeroporto e senza poter attraversare lo stretto e lungo cunicolo (il “tunnel”) che i bosniaci si erano costruiti per uscire dalla città sotto le linee e gli stivali dei loro assedianti. Un giorno mi chiama non so come (anche oggi da Sarajevo si può chiamare l’estero solo con pochi apparecchi satellitari) e mi spedisce a Spalato a prendere un ragazzino bosniaco che verrà a stare un po’ da lui. Nessuno di noi in Italia ne sapeva niente. Il ragazzino, Fadil, è stato due anni a casa nostra e ora è tornato a Sarajevo. Ha diciott’anni e gli è rimasto un debole per Vasco Rossi.

I molti mesi sarajevesi di mio padre sono sempre rimasti un mistero, per noi che eravamo qui, solo in parte mitigato dalle informazioni sulla Bosnia che circolavano in Italia, dai suoi racconti e dal cauto osservare della sua passione. I suoi amici alternavano l’adesione al suo impegno all’ansia per la sua salute, e per il fatto che trascurasse i suoi guai italiani. Le tragedie piccole non capiscono le grandi, a volte, e non solo viceversa. E in Italia avevamo altri pensieri. La prima volta che partì per la Bosnia, lo accompagnai in macchina fino a Trieste, dove arrivammo nel cuore della notte sbandando e cappottando sul bagnato dell’ultimo tornante. Così cominciò.

 

A Sarajevo arrivano ancora pochissimi voli, e con tragitti tortuosi per chi parte dall’Italia. Il viaggio in macchina, da Trieste, dura tra le sette le nove ore, a seconda delle disponibilità dei guardiani di frontiere e posti di blocco. Da Spalato, un autobus raccoglie gli sbarcati dal mare, impiega otto ore per compiere un improbabile giro verso sud lungo circa trecento chilometri, e arriva a Sarajevo che ormai non ci speravi più (“dovevi vedere durante la guerra”, è il ritornello che qui appioppano continuamente a noi viziati visitatori dell’ultim’ora). Il bus ha fatto una lunga sosta alla frontiera croato-bosniaca, due in altrettante trattorie di campagna, una in un bar, quattro fermate intermedie, tra cui Mostar.

Arrivo a Sarajevo alla vigilia della visita del papa, ma nessuno dei due gode di un’accoglienza formidabile. A me mi aspettavano un’ora dopo, a lui due anni prima. Così mi perdo in giro e cerco di capire la città: era vero, bisogna venirci. Mentre mi guardo intorno incrocio un uomo di mezza età in un vestito grigio che scambia il mio sguardo, distante.

Sulla giacca ha appuntato un fiocchetto giallo.

Sarajevo se ne sta in una valle stretta stretta, al cui fondo stanno la via principale e un piccolo fiume, la Miljacka. Sui due versanti sono appoggiate in ordine sparso case vecchie e nuove, moschee e minareti, resti di mura e bastioni, palazzetti e cimiteri, tra intrecci di strade e stradette di una ripidezza quasi insuperabile. E’ un posto stretto e lungo, in cui non ci si perde mai, ché si sbatte sempre contro una salita o contro un minareto. A un estremo, quello da cui sono arrivato col bus, è cresciuta l’orribile città moderna, socialista e reale (quella che si è vista sempre nei reportages, perché è lì l’Holiday Inn, l’albergo dei giornalisti). All’altro si annidano i lastricati dei vecchi quartieri, piccoli e fitti.

E tutto quanto, tutto quanto, è sforacchiato e sgangherato. In questi anni, dalla cima delle colline, gli assedianti serbi hanno buttato giù di tutto. Il catalogo delle cicatrici è sterminato: brecce nei muri, tetti crollati, rose di pareti scheggiate, marciapiedi sbrindellati, vetrate infrante o forate, buche nell’asfalto, statue mutilate.

Comincio a incontrare persone che hanno conosciuto mio padre e a raccogliere storie, saluti, ansie. Vedo altri fiocchi gialli su altri baveri.

“Noi tutti giorni pensa di Adriano in carcere”.

Il giorno che precede l’arrivo del papa le strade sono affollate: a me pare una città europea simile ad altre, le persone eleganti, quelle no, i sacchetti nelle mani, i ragazzi fermi sui muretti, le signore ai tavolini del bar. Ma tutto intorno è pieno di buchi. Non fosse per i cimiteri, sembrerebbe che sia successo tutto un giorno che erano via. I cimiteri hanno centinaia di lapidi bianche sulle colline, dozzine di lapidi bianche nei giardini, mazzi di lapidi bianche nei cortili delle case, file di lapidi bianche nei prati delle moschee.

Sulla vetrina di un bar vedo un manifesto: “Adriano SoFree”.

“Vostro padre viene spesso qui. Noi litighiamo. Ora deve uscire di prigione, per tornare. A litigare.”

Due anni fa mio padre era qui e sperava come tutti che il papa venisse, prima che quel viaggio fosse annullato all’ultimo momento da grandi e piccole viltà.

“Io sono qui da un mese soltanto: sa che suo padre è molto popolare a Sarajevo?”

Arrivo a un incontro organizzato qui “per il nostro amico Adriano Sofri”. Ci sono duecento persone, combattive e appassionate. Riconosco nomi sentiti e facce viste nei film di mio padre, e persone che qui sono conosciute. Il generale Divjak, vicecomandante della difesa di Sarajevo, Zlatko Dizdarevic, direttore del settimanale Svijet e collaboratore di diversi giornali esteri, Marko Vesovic, autore di “Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo”. Una signora mi si avvicina e mi dice cose che non so, poi mi consegna, da portare in carcere, dei francobolli che celebrano la visita del papa; lavora all’ufficio postale, mi dicono, da dove mio padre mandava gli articoli in Italia. Un pittore sarajevese ha disegnato un manifesto con un cuore in fiamme, rosso.

“Hanno cambiato tanti nomi alle strade di Sarajevo: ma ce ne saranno una per Tadeusz Mazowiecki e una per Adriano Sofri. Ci andranno gli innamorati.”

 

Il giorno che il papa arriva a Sarajevo, la città è stravolta, a metà tra un set cinematografico e un ritorno ai giorni di guerra. Non circola un’automobile, ai cittadini è stato detto di stare lontani dalle finestre e di non muovere le tende, ci sono due poliziotti a ogni incrocio e uno tra incrocio e incrocio. Le troupes televisive si danno il cambio nei punti più pittoreschi, nel bene e nel male.

“Non voleva mai prendere un taxi, usciva e camminava”.

Quattro elicotteri stanno fermi, appesi al cielo, sopra le colline da cui più si teme e da cui più si è buscato. C’è un silenzio beato e impaurito, ma i più lo attraversano in attesa che passi. I soldati del battaglione San Marco mostrano tutto il repertorio tradizionale di cattiveria estetica, occhiali scuri, ghigno e barbette, ma sfoderano sorrisi entusiasti quando gli chiedi “come va?”. “Potrebbe andar meglio, grazie”. Fa un freddo cane che ghiaccia le mani, la notte è nevicato, poi torna il sole, e di nuovo. A Sarajevo il tempo è così, dicono.

“Adriano è venuto, è stato, e ha capito cosa stava succedendo”.

Nella comunità giornalistica papalina calata per l’occasione, sono pochi i veterani di Bosnia e fanno da guida ai nuovi per le vie e le tensioni della città: “dicono che non sia una vera pace. Ma questa è l’unica pace possibile e non sarebbe venuta senza una prova di forza: Nessuno di quelli che la criticavano paventando stragi di civili e l’allargamento della guerra, ha poi avuto il coraggio di dire dire «abbiamo sbagliato»”.

 “Una volta mi ha confessato di aver avuto paura, una granata gli era caduta così vicina da sputargli i pezzi d’asfalto sui calzoni”.

Il presidente Izetbegovic accoglie il papa all’aeroporto. Qui tutti lo chiamano Alja, quelli che lo amano e quelli che diffidano. Si gela e ha il basco ben calcato sulla testa.

A Sarajevo non c’è gas e ci si scalda, poco, con le stufe elettriche. Il gas arriva da un gasdotto serbo, fornito dai russi, che vogliono milioni di dollari che la Bosnia non ha. Quindi. L’acqua c’è ogni tanto sì e ogni tanto no.

“Questa è la casa dove stava: l’Holiday Inn era costosissimo e non gli piaceva.”

Trovano ventitré mine sotto un ponte, non se ne capisce niente. Erano fuori dal percorso del papa: ma erano già lì? E avevano un timer o un telecomando? E le hanno messe quattro turchi? L’allarme generale però si sgonfia, come se fosse stato in qualche modo soddisfatto. Il papa arriva alla cattedrale accolto da un raggio di sole, da ovest. Molla tutto e si avvicina alle persone. Panico tra la sicurezza. Le persone sono poche e infreddolite.

“E’ possibile che lui esce di prigione se Bosnia dà rifugio politico?”

La neve diventa una tormenta quando il papa prega allo stadio, affollato di gente venuta da lontano. E’ stanco, vecchio e malato, e tiene duro. Gli inviati battono i denti e lui canta.

“Estate io va con tutta famiglia, moglie, bambine, a vedere lui in prigione”.

A sera l’aereo del papa vola via, in diretta televisiva. Subito dopo nel suo silenzio si insinuano di nuovo i canti lamentosi dei titolari, alla preghiera della sera.

 

La mattina dopo i blindati dello Sfor, la forza multinazionale che a Sarajevo schiera italiani, libanesi ed egiziani, si muovono con pigrizia verso le basi fuori città. La città è di nuovo camminata dai suoi abitanti, che si affacciano e spostano le tende. Le auto si sparpagliano lentamente per le strade, con l’andatura tipica di qui: quella imposta dal rallentare e zigzagare tra le voragini dell’asfalto.

“Quando Amra era piccola e non voleva mangiare, voleva solo ananas, e Adriano un giorno porta venti barattoli di ananas”.

L’auto su cui ho trovato un passaggio rimane bloccata mezz’ora a un incrocio in periferia. Il traffico è sospeso per far passare una delegazione arrivata all’aeroporto, dice un poliziotto. Ordinaria amministrazione internazionale. Sulla strada torreggia la maceria impressionante del palazzo di Oslobodjenie, il maggiore quotidiano di Sarajevo. Partiamo che c’è il sole.

“Fai una foto per Adriano. Lui è stato qui durante la guerra e io gli avevo raccontato che avrei fatto questo ristorante, alla fine della guerra”.

Viaggiare in Bosnia è una cosa diversa. Le carte non aiutano, le strade sono all’improvviso chiuse, i cartelli mancano, i monti ingannano. Nessuna perduta casa di montagna è stata risparmiata da un colpo o due, o dallo svuotamento esplosivo. Ci sono paesi poveri e soli, calpestati dalle armi e dimenticati dagli aiuti. Entriamo nella repubblica serba di Bosnia senza accorgercene, poi appaiono i caratteri cirillici.

“Quando viene papa, noi scrive lettera, di Adriano, per papa. E a Sarajevo tanti vuole firma lettera”.

La frontiera con la Croazia, per mia ignorante sorpresa, è chiusa ai civili. Per controllare le tensioni tra serbi e croati, si passa in due soli punti, da cui ci troviamo distanti centinaia di chilometri. I doganieri ci permettono di superare il ponte solo dopo aver escogitato una formula di registrazione del costo di sessanta marchi. E dopo c’è di nuovo la Croazia, un altro paese. Che si è scrollato di dosso un sacco di cose ed espone autostrade e vetrine e ragazzini in gita scolastica alla cattedrale di Zagabria.

“Deve tornare, ci sono qui le sue pantofole”.

Così anch’io sono stato a Sarajevo. Dove mi pare che non gliene importi niente di quello che mio padre scrisse nel 1970, né di chi sono i suoi amici, e non gli importa della procura milanese, e dell’uso dei pentiti. Là credono che sia innocente. Vogliono sapere come sta.

Adriano sta bene, nel carcere di Pisa.

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