Alla vigilia della deposizione di Monica Lewinsky e coi senatori che si accapigliano intorno alle possibili sorti del loro presidente, erano ancora faccende di sesso orale ad agitare gli Stati Uniti e tormentare le notti dei loro più illustri cittadini. Alle nove di sabato sera, sul Biscayne Boulevard di Miami, strada di pusher e prostitute, un’agente di polizia in borghese ha arrestato Eugene Robinson per adescamento. Solo che Eugene Robinson, trentasei anni, ventiquattr’ore dopo avrebbe giocato (e perduto) il Superbowl numero trentatré, finale del campionato di football, l’evento sportivo più atteso dall’America ogni anno, decine di milioni di spettatori, e decine di milioni di dollari di contratti pubblicitari e diritti televisivi. E Eugene Robinson ha il record delle palle intercettate in questo campionato, aveva già perduto la finale dell’anno scorso, ed è considerato il leader della sua difesa.
La squadra di Robinson, gli Atlanta Falcons, erano giunti inattesi alla finale contro i Denver Broncos, detentori del titolo, dopo aver superato nella finale di Conference i Minnesota Vikings (il Miami Herald di domenica è andato per sbaglio in edicola col nome dei Vikings nel titolo sulla partita, diventando un pezzo da collezione per i tifosi). Pur sfavoriti da tutti i pronostici, i Falcons presentavano alla finale alcuni giocatori tra i più apprezzati del campionato. Tra di loro il “safety” Eugene Robinson, atleta di rinomata fede religiosa e atteggiamento pastorale, che spiccano tra le sempre più soventi fedine penali sporche dei giocatori della NFL. Appena sabato mattina Robinson aveva ricevuto il riconoscimento dagli “Athletes in Action”, un’associazione religioso-sportiva, per il suo “carattere di alta moralità”. Secondo il verbale redatto dall’agente che lo ha arrestato “durante un’operazione di polizia contro la prostituzione, il fermato ha accostato la sua auto (presa a noleggio) e offerto quaranta dollari”, per una prestazione di sesso orale.
Difeso dalla sua famiglia (Robinson è sposato e ha due bambini) e dalla squadra, il giocatore si è detto innocente ed è stato blindato nel suo albergo in attesa della partita a cui il suo coach ha annunciato che avrebbe comunque partecipato. Il Superbowl è un evento di portata inimmaginabile per chi non l’abbia mai seguito. L’America si ferma per quattro ore, la città che ospita la finale è paralizzata. Quest’anno Miami ha retto bene, ma l’anno scorso i locali di San Diego esaurirono le scorte di viveri e bevande ancor prima della partita e gli abitanti della città appesero cartelli che dicevano “tornate a casa”. I biglietti per il match vengono venduti a mille dollari l’uno. E naturalmente tutto l’evento è spettacolarizzato a fini televisivi, ed enfatizzato in ogni attimo spendibile, dal lancio della monetina alle danze delle cheerleaders. Ogni anno una star diversa canta l’inno nazionale (questa volta è toccata a Cher, conciata come una parrucchiera dell’Idaho) e viene allestito uno show nell’intervallo sempre più costoso e sempre più kitsch, tra fuochi d’artificio, ballerini a centinaia e fenomeni vari, ultimi Gloria Estefan e Stevie Wonder. Tutto è avvolto in un baraccone pubblicitario altrettanto ingombrante e rumoroso: quest’anno ci è voluta una torre di controllo appositamente innalzata all’interno dello stadio per vigilare su dirigibili, aerei con striscioni, e elicotteri a spasso sul cielo dello stadio (“Il vincitore è Gesù” diceva un messaggio prima di cedere il passo a quello della birra Heineken, e, a proposito, a uno che diceva “fate fuori il bugiardo traditore”). Una delle questioni più dibattute del prepartita (assieme ai problemi di verniciatura del prato sintetico) era stato il nuovo balletto di festeggiamento dei giocatori, il “dirty bird”, una specie di svolazzo antropomorfo. Il resto dell’attenzione si spande sui vari vips che calano in città, come Denis Rodman, formidabile e delirante giocatore di basket pluritatuato, il rapper Puff Daddy, l’ex presidente Jimmy Carter.
Ma la questione Robinson ha improvvisamente scosso la vigilia e soffiato l’attenzione alle altre vicende poco edificanti che circondano molti grandi campioni del football. I problemi di alcoolismo di Terence Mathis non sono granché in confronto alla dozzina di atleti arrestati per violenze varie in tutta la stagione di campionato. Keith Poole dei New Orleans Saints è stato condannato a due mesi per aver colpito un uomo con una mazza da golf. Il linebacker dei Falcons, Cornelius Bennett, si è fatto 35 giorni di prigione per abusi sessuali, e nel prepartita ha cercato di confortare il suo compagno di squadra Robinson, che rischia 60 giorni e deve pagare 1000 dollari se rivuole la macchina. Proprio a Miami, dieci anni fa, Stanley Wilson dei Cincinnati Bengals venne fermato per possesso di cocaina e saltò la finale.
Nel frattempo ha suscitato grandi polemiche l’entrata nella Hall of Fame di Lawrence Taylor dei Giants, ritirato sei anni fa e ritenuto uno dei cinque più grandi giocatori di tutti i tempi. La giuria che decide quali atleti meritino di entrare nell’Olimpo dei migliori, ha scelto di ignorare, dopo molte discussioni e sotto molte critiche, i ripetuti precedenti per uso di cocaina di Taylor (che ha ieri accusato i giurati dubbiosi di essere “molestatori di tredicenni”). Arrestato per la terza volta lo scorso ottobre per l’acquisto di cinquanta dollari di crack, fu costretto a entrare in un centro di riabilitazione che costa alla sua vecchia squadra, i New York Giants, settemila dollari a seduta.
Per Taylor che viene reso giustamente immortale e forse uscirà dai suoi problemi, Eugene Robinson si sveglia stamattina con una denuncia per adescamento, una catastrofe di immagine, grossi guai in famiglia, e, last but not least, un Superbowl malamente perso. Perché nel frattempo da ieri i Denver Broncos sono campioni per la seconda volta consecutiva, avendo placidamente vinto la finale per 34 a 19, e Robinson si è perso il suo uomo nell’azione più spettacolare della partita, un lancio da ottanta yards. E non può nemmeno ordinare di bombardare Denver.