La questione Napster è del tutto aperta. Il software che ha seminato lo scompiglio tra internet, il mercato discografico e le questioni sul diritto d’autore, rischia ancora di essere eliminato dalla rete per decreto di un giudice americano, che deciderà nelle prossime settimane.
Ma la sorte di Napster è all’improvviso minacciata altrettanto seriamente da un’eventualità che fa parte della sua stessa natura, l’uovo di Colombo del suo fallimento. Alla fine di ottobre sarà pubblicato il nuovo cd degli U2, attesissimo come già lo furono quest’anno i nuovi dischi di Oasis, Madonna, Peter Gabriel, Smashing Pumpkins. Tutti disponibili su Napster con giorni o settimane di anticipo (anche il segretissimo nuovo dei Radiohead è stato violato pochi giorni fa, e uscirà ai primi di ottobre). Bene, i dieci titoli del nuovo U2 sono in rete piratescamente da cinque giorni. Sono i file mp3 più scaricati di tutta la Napster-net. Si moltiplicano a vista d’occhio. E manca un mese e mezzo. Solo che non sono le canzoni del nuovo cd. Qualcuno ha fatto il bastardo e ha rinominato altri brani (uno è di Peter Gabriel, altri sono elettronica strumentale) con i titoli, già pubblici, del cd a venire. Ma lo si scopre solo una volta che li si è scaricati.
Il successo di Napster si fonda totalmente sulla sua affidabilità. Se i discografici non temessero di perdere definitivamente la benevolenza dei fans, non avrebbero che da incentivare questa pratica: à la guerre comme à la guerre. Ma forse basta lasciar fare e il caso U2 non è che l’inizio, l’inizio della fine. “Per funzionare, una pratica illecita ha bisogno dell’onestà dei suoi partecipanti”.
Quella di Annalisa Piras a Michael Bloomberg, sull’Espresso di qualche settimana fa è stata la seconda migliore intervista a proposito di internet pubblicata quest’anno. Bloomberg è il creatore di Bloomberg, il servizio di informazione economica esploso anche su internet, in competizione con la Reuters per il posto di numero uno tra i media finanziari. Alcune delle cose che dice, non da oggi, sono queste. “Non bisogna confondere una tecnologia per una rivoluzione”, “La gente non ama comprare su internet”, “Internet non cambierà il mondo e non ci sono soldi da fare”, “La pubblicità? Noccioline”. Sono cose formidabili, dette da uno che sta dentro internet fino al collo, o no? No, dice lui, sono cose ovvie: “La colpa è di voi giornalisti e di alcuni analisti che hanno fatto credere che due ragazzini in un garage potessero competere con Wal-Mart (il colosso della grande distribuzione USA)”. E “il polverone mediatico è pieno di cifre ridicole”.
Che il polverone mediatico ci sia stato e ci sia è sotto gli occhi di tutti. Fra qualche anno forse usciranno inchieste in cui gruppi di giornalisti faranno ammenda degli eccessi di questi anni e dichiareranno che forse Jeff Bezos e Renato Soru non erano gli uomini della provvidenza. La connivenza con le procure risalterà. Per ora, un accenno a internet guarnisce qualsiasi notizia di una patina d’oro, nelle redazioni. Ma un seme di fronda è gettato, evidentemente. Adesso, come accadde all’alba della rete, lo gettano con fatica e dati alcuni esperti competenti. Poi, forse, lo sboom della new economy diventerà di moda e saremo daccapo. Nessuna notizia potrà competere con un bel fallimento online, un dato un po’ negativo, un trend rallentato, il suicidio di un day trader in crisi. È il revisionismo, baby.