Choke

“Se state per cominciare questo libro, lasciate perdere. Dopo un paio di pagine vorrete non averlo fatto. Quindi scordatevene. Andate via. Uscitene finché siete tutti interi. Mettetevi in salvo. Ci sarà senz’altro qualcosa di meglio in televisione”. L’inizio di “Choke” non è particolarmente originale ma ha lo stesso qualcosa che si riconosce da subito. L’autore ha guadagnato fama e quattrini grazie al film con Brad Pitt che si fece del suo “Fight Club”, storia di eccessi machisti ambientata in un futuro assai prossimo. In questo “Choke” gli somiglia: gli eccessi sono distribuiti a piene mani e al tempo stesso del tutto plausibili. Il protagonista, Victor Mancini, frequenta un gruppo di riabilitazione per maniaci sessuali che già costituisce un modo di descrivere abiezioni e dipendenze straordinarie, con particolare attenzione al sesso occasionale nelle toilettes degli aerei e alle inserzioni rettali. Il corso prevede, come punto quattro di dodici, che si trascriva una ricostruzione della propria dipendenza, e da qui viene il libro. Dentro ci finiscono: l’infanzia sciagurata di Victor con una madre ecoterrorista ante literam, la sua pratica di soffocamento (choke) nei ristoranti per essere poi salvato da qualcuno che gli vorrà bene e lo aiuterà economicamente per la vita, il lavoro da servo in una ricostruzione per turisti di un villaggio del 1734, il mantenimento con queste entrate della madre ricoverata in un ospizio gonfio di rimbambimenti senili, cibo masticato e incontinenze, una imprevista love-story con una misteriosa dottoressa, la progressiva scoperta di essere nato dalla clonazione di una cellula del prepuzio di Gesù Cristo e quindi di essere Gesù reincarnato. Ce ne sarebbe abbastanza senza che ci sia bisogno di dire che tutto questo viene con eventi e dialoghi al tempo stesso assai sgradevoli e spiritosissimi. Con una sola delle dieci situazioni che Palahniuk immagina in “Choke” ci si potrebbe fare un libro.
Le situazioni sono esilaranti e la loro abiezione è spacciata come del tutto normale. Il sesso come “addiction”, dipendenza, la fa da padrone, senza che nessun giudizio morale venga espresso, se non in un finale inaspettatamente sentimentale e improvvisamente monogamico. “Voglio dire, cosa c’è di meglio del sesso? Di sicuro anche il peggiore pompino è meglio per esempio che annusare la rosa più bella del mondo o guardare un tramonto straordinario. O veder ridere i bambini. Non credo che leggerò mai una poesia così dolce come un caldo, formidabile, esplosivo orgasmo”. Attorno alle quotidiane peripezie del protagonista, si srotolano quelle del suo amico Danny, che passa da una dipendenza all’altra, concentrandosi a lungo sulla raccolta di sassi che ammassa in ogni angolo della casa del suo ospite. E che così racconta la meraviglia della sua prima masturbazione adolescenziale: “Pensai di averla inventata io. Guardavo quella mia robetta e pensavo: c’è da diventarci ricchi, con questo”. Victor capisce un po’ alla volta di aver bisogno sopra tutto di essere necessario a qualcuno, sia sua madre o Denny, ripetendo invertito il rapporto con i suoi occasionali salvatori da soffocamento.
Tutto questo fa un romanzo di 280 pagine scritto da uno che sa scrivere e dotato come si vede di una fantasia piuttosto straordinaria. A tratti misogina ma straordinaria: “Non abbiamo bisogno delle donne. Il mondo è pieno di altre cose con cui fare del sesso, provate ad andare a una riunione di sessodipendenti e prendete appunti. Meloni passati nel microonde. Maniglie del tagliaerba. Aspirapolveri e poltrone a sacco. Siti internet. E tutti quei poliziotti che nelle chat fingono di essere ragazzine di sedici anni. Davvero, quelli dell’FBI sono i più eccitanti”.

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