Nell’andamento delle nostre vite di questi anni – una riga in mezzo, noi di qua e voi di là: la logica del bipolarismo che va dai confronti coniugali alla politica internazionale ci sono due atteggiamenti distinti, che spesso si mescolano ma con la prevalenza di uno sull’altro. Quello di chi si attende di vincere con la forza della propria parte e quello di chi conta sulla debolezza dell’altra. Chi pretende il massimo della correttezza dai suoi e chi rinfaccia ogni minima scorrettezza agli altri. Si può andare in campo convinti dell’imbattibilità della propria squadra e chi se ne importa di cosa fanno gli avvresari, oppure contando sui limiti degli altri per vincere anche se non si è in gran forma. Un attacco spettacolare o una difesa avversaria carente. Mettere in discussione i propri leader o prendersela con Emilio Fede, o tutti e due. Ci siamo capiti. Inutile dire quale stile sia più nobile e quale sia più concreto, quale più lungimirante e quale più buono a portare a casa un piccolo successo immediato. Si può rispondere a ogni critica sui propri fallimenti rinfacciandone di analoghi o peggiori a chi ce ne chiede conto: sta succedendo in questo istante in alcune migliaia di circostanze (parentesi sul confronto italiano: successi indiscussi di cui andar fieri in tutti questi anni, un oscar e una grande manifestazione da una parte, una vittoria elettorale dell’altra: ti credo che si preferisce contare sulle laute magagne altrui). Oppure si può chiedere a se stessi di rendersi immuni a ogni critica, modello da esibire, avvicinamento ai valori e principi in cui si crede, per avere così davvero la coscienza di scagliare la prima pietra, ogni tanto.
A Guantanamo si tortura? Ma i terroristi sono assassini. A Genova la polizia picchiò a sangue? Ma il black bloc aveva attaccato a bastonate. Sharon fa sparare sui civili? Ma Arafat non ferma il terrorismo. Bene, io, l’America, la polizia italiana e Israele, condividiamo gli stessi valori e gli stessi principi, dichiariamo di rispettare la democrazia, i diritti umani, eccetera. Pretendo che lo facciamo, che ci comportiamo bene: siamo dalla stessa parte. Non me lo aspetto invece né da bin Laden, né dai teppisti del black bloc, né da Arafat. Israele è una democrazia occidentale, i suoi cittadini sono in gran parte europei, la sua cultura è la mia, i suoi soldati credono nella legalità. Arafat è un dittatore (è un fatto, ma lo dico senza timore dopo averlo sentito spiegare dagli insegnanti palestinesi dell’università araba di Gerusalemme ai loro studenti) il popolo della Palestina vive una condizione di schiavitù che rende impraticabile il rispetto dei valori che noi condividiamo (doppia schiavitù: il giogo israeliano, la gaglioffaggine dei suoi propri leader), i kamikaze sono assassini che ritengono di poter ammazzare chiunque, bambini compresi. Da chi dovrei aspettarmi giustizia, correttezza, rispetto dei diritti delle persone? A chi dovrei chiederlo? Quale scelleratezza dovrebbe scandalizzarmi di più?
Allora mi pare che sia giusto manifestare contro la politica di Sharon ed esprimere le proprie opinioni critiche nei confronti di Israele nei confronti di chi ha strumenti e storia a cui ispirarsi – dal momento in cui abbiamo ammesso e compreso che Israele siamo noi (vale anche per gli ebrei romani che sono andati a manifestare sotto la sede dei loro compagni di scuola di Rifondazione invece che contro una rappresentanza palestinese o araba). Con Israele comunichiamo, pensiamo che la nostra protesta abbia un peso, che i corpi davanti ai fucili siano un ostacolo compreso: nessuno fuorché i radicali senza peccato che vanno a farsi arrestare in Laos – pensa che il proprio scudo umano possa essere un deterrente ascoltato dai terroristi suicidi o da chi non parla la nostra lingua civile. Chi invece pensa di essere anche la Palestina, che applichi ad Arafat lo stesso rigore e gli chieda ragione della sua decennale retorica inconcludente, che vada alle manifestazioni in difesa di Israele, che chieda un tribunale internazionale per i terroristi palestinesi ed elezioni democratiche. Che dia alle scelte di Arafat a Camp David almeno le stesse responsabilità che dà alla passeggiata di Sharon, che riconosca in Arafat un nemico avido e vanitoso del suo popolo invece di circondarlo di un’omertà affettuosa (baci compresi). La poca attenzione destinata all’infame macello di dodici “collaborazionisti” palestinesi non può non essere paragonata con lo scandalo legittimo che stava montando in quelle poche ore in cui è circolata la notizia poi smentita dei quindici ammazzati dall’esercito israeliano in un ospedale. E dimostra l’atteggiamento di estraneità (come per il famoso milione di cinesi) che abbiamo nei confronti degli arabi, e la familiarità che sentiamo con Israele, anche quando uccide. (Poi uno si chiede ancora una volta – fuor di turno elettorale – quanto contino i popoli e quanto i potenti nelle svolte storiche: contrapponendo la Perestrojka e la Caduta del muro, per esempio. E nella storia di Israele, i movimenti d’opinione internazionale hanno mai contato qualcosa? Ma questa è un’altra questione).
Manifestiamo contro una parte soltanto, d’accordo: ma che sia perché è la nostra. La pagliuzza nel nostro occhio democratico invece della trave in quello del nostro prossimo. Facendo in modo che ci diventi più prossimo, nel frattempo, e sparargli addosso non aiuta.