Ho l’impressione che il confronto tra i “pacifisti a senso unico” (a quali mediocri espressioni si deve ricorrere per star dietro al vocabolario dei titolisti e i loro critici), si incarti in un equivoco. A chiamarlo equivoco. Per difendersi dalle accuse di usare due pesi e due misure nei confronti delle vittime palestinesi e israeliane, gli accusati dichiarano e confermano la loro “condanna dei terroristi e dei kamikaze”, condanna che associano senz’altro alla protesta contro “le violenze dell’esercito israeliano” e “le responsabilità del governo Sharon”. Notate niente? Leggete bene, andate a rivederle queste affermazioni di equidistanza. Esse accomunano nella condanna la precisa politica di uno stato e le scelte criminali di individui nemici della pace. La protesta si dice equa e imparziale annunciandosi sia contro un governo (quando non uno stato) che contro una “minoranza di pazzi”, come ho sentito dire. E che valore ha la condanna del terrorismo come se si trattasse di una pratica delinquenziale qualsiasi, o di criminalità organizzata, fino a che non la si mette in relazione diretta con le scelte e le responsabilità dell’Autorità Palestinese, di cui è figlio come le prepotenze militari israeliane sono figlie degli ordini che ricevono?
Nessuna persona informata e in buona fede mette più in dubbio che quella degli attentati sia una strategia, e che nel migliore dei casi Arafat e il gruppo dirigente dell’ANP la avallino e ritengano di trarne risultati politici. Scrive Time: “Arafat ha capito che la sua popolarità cresce quando la sua gente combatte Israele; mentre quando le cose sono calme, i palestinesi hanno modo di accorgersi quanto corrotto e incompetente sia il governo che egli guida. In più, Arafat immagina che la violenza possa demoralizzare Israele e ammorbidire la sua posizione ai negoziati. La violenza ha funzionato altre volte. Non può combattere una guerra convenzionale perché non ha un vero esercito. E così il suo esercito sono gli attentatori suicidi”. Scrive Jean-Marie Colombani, direttore di Le Monde: “Nel settembre del 2000 Arafat ha scelto di rifiutare la pace che gli era stata proposta dalla sinistra israeliana e garantita dal presidente Clinton, rifiutando di impegnarsi in un progetto che disegnava due stati”. Scrive Thomas Friedman sul New York Times: “I palestinesi hanno adottato gli attentati suicidi come scelta strategica, e non per disperazione”. Scrive l’Economist: “Arafat ripudia le atrocità occasionali. Ma quando chiede che “un milione di martiri” liberi Gerusalemme, i martiri capiscono cosa intende”.
Con tutti i distinguo che si possono e si devono fare sulle azioni sciagurate che provengono da una parte e dall’altra, una cosa è definitivamente e chiaramente uguale di qua e di là del confine: la violenza e la morte sono il risultato diretto delle scelte dei rispettivi leader. Diretto. È inutile che ci si mostri imparziali e illibati condannando il terrorismo, parole vuote, cliché di retorica istituzionale. Non è la condanna della sola violenza israeliana il peccato dei “pacifisti a senso unico”, e non si contesta loro di applaudire le stragi di innocenti nei ristoranti israeliani, traguardo a cui grazie al cielo arrivano in pochi (ma alcuni arrivano, e la mamma dei cretini, eccetera). Il “pacifismo a senso unico” è esattamente il condannare Sharon da una parte e equidistanza – “i kamikaze” – dall’altra.
Aggiungo una cosa, per il direttore e la sua idea: a un israeledéi, io ci verrei. Perché mi piace che Israele – che ha sempre avuto sostegni solidi ma silenziosi e di affezionate parentele – abbia con sé una folla sfacciata. Ma quando danno un pugno a tuo fratello – come fanno i difensori miopi delle sole ragioni palestinesi – non si risponde dando un pugno a loro fratello. Si invitano a cena i fratelli di tutti. Di gente che manifesta per una parte sola ce n’è anche troppa e sono capaci tutti. Siamo in grado di volere davvero la sopravvivenza di due stati, e comportarci di conseguenza, almeno noi?