Ve l’avevo detto, razza di idioti…

Succede questo, che il presidente del consiglio di uno dei maggiori paesi industrializzati attacca i suoi nemici politici definendoli comunisti, e abbraccia come nuovo amico e alleato un ex membro dell’apparato repressivo sovietico, che nel frattempo è diventato presidente di un altro dei maggiori paesi industrializzati del mondo: non si può negare che manchi ancora una certa chiarezza nei confronti della storia del secolo passato. E non è che le cose migliorino, se ogni sforzo di affrontare la vicenda che da Carlo Marx è arrivata alla caduta del Muro è tarato da un’intenzione principale: dimostrare chi aveva torto e chi aveva ragione. Affrontare così la storia è come guardare Italia-Germania del ’70 per sfottere i vicini di ombrellone tedeschi. La lettura del nuovo libro di Martin Amis romanziere inglese di bravura e talento; freddo e antipatico per altri comincia con questo timore. Che le sue riflessioni sullo stalinismo siano rese maldestre dal desiderio di confrontarsi con il comunismo del padre Kingsley (poi divenuto totalmente anticomunista), di chiedere conto all’amico giornalista Christopher Hitchens delle sue sopravvissute simpatie per Lenin e Trotsky, di dimostrare le precoci ragioni dello storico Robert Conquest, suo vecchio amico.
Ci sono cose fastidiose in Martin Amis, una distanza dal lettore e un vezzoso autocompiacimento, che si trovano anche in questo suo libro (per finire con la sua fiera foto sul risvolto ah-che-scrittore-figo, inquietante quanto l’immagine di Stalin sulla copertina). Ma nel complesso sono attenuate da una leggerezza e da una falsa ma gradevole ingenuità nell’avvicinarsi a un tema di cui non è un professionista: “Sono un romanziere e critico di 52 anni che di recente ha letto parecchi libri sull’esperimento sovietico”.
Il libro si chiama “Koba the dread”; Koba era uno dei nomignoli giovanili di Stalin. Per tre quarti è costituito di citazioni e storie riprese da Amis in queste sue recenti letture: la lista dei titoli riprodotti occupa tre pagine alla fine del libro. Amis raggruppa le storie per temi e vi aggiunge sue considerazioni, domande, collegamenti: vi sono orrori di gulag, carestie, assassinii, torture e stermini, e aneddoti sulla personalità di Koba. Il sottotitolo del libro si traduce con “Ridere e i venti milioni”: i venti milioni sono la vaga cifra di morti attribuiti allo stalinismo. Quanto al ridere, Amis si domanda per tutto il libro come mai si sia sempre scherzato e riso e fatto ironie sull’URSS e sul comunismo, come si sia potuto, a fronte degli orrori e dei crimini che invece impongono assoluto rispetto e serietà se riferiti alla Germania nazista. La riflessione è debole primo, è falsa, secondo, non prosperano le barzellette su un regime sconfitto e dissolto in vent’anni, e mezzo secolo fa ma introduce a una questione annosa, banale e schematica quanto inevitabile: fu peggio il nazismo o il comunismo? Amis constata che tutti tendiamo a dire “il nazismo”, ma non sa spiegarsi esattamente il perché, a fronte delle tragedie parallele. In realtà la domanda non si può porre in questi termini, per quanto ci si sforzi. Il comunismo è più simile un fine, e il nazismo a un mezzo; il primo ebbe diversi longevi esperimenti dopo essere stato teorizzato, mentre il secondo ne ebbe di brevi che si fecero teoria. Eccetera (il comunismo non implica espliciotamente gli stermini, il nazismo sì) . Nazismo e comunismo si possono paragonare solo sul piano della storia e dei risultati, non su quello delle ideologie, in astratto inconfrontabili. E allora fu peggio la Germania nazista o la Russia comunista? Ammesso che si trovino dei criteri sensati (il numero dei morti? Santo cielo) la domanda è a questo punto davvero poco interessante: fu peggio l’Impero Romano o quello Napoleonico?
A rendere ancora meno praticabile il confronto, nel libro Amis fa di tutto per suffragare il luogo comune per cui del comunismo l’URSS sia stata un’aberrazione. Il termine “comunista” non compare quasi mai, e le insistite analisi caratteriali dei dittatori, Lenin o Stalin che siano, sembrano sgombrare il campo da ogni legame con una ideologia: qui si parla di follie umane. Anzi, Amis non perde occasione per dimostrare quanto controrivoluzionarie o addirittura zariste siano state le pratiche staliniane, e quanta ipocrisia abbia tradito i programmi originari. Semmai, un fronte ancora da definire una volta per tutte, è quello della presunta superiorità morale di Lenin rispetto al suo sanguinario successore: altro luogo comune che Amis invece attacca duramente.
In conclusione, Amis lascia aperte molte delle domande che si è fatto e questo gli fa onore a partire dalla maggiore, rivolta a suo padre: come hai potuto non solo credere a Stalin, ma credere in Stalin? Ma azzarda una risposta seria alla questione della distanza tra teoria e applicazione del comunismo, sostenendo che gli stessi ideali di una società giusta, di una perfezione umana e di una fratellanza totale, sono più disumani del rispetto per la fallibilità umana e portano con loro il germe del fanatismo e del fallimento.
Racconta Amis che quando il libro di Robert Conquest, “Il grande terrore”, fu ristampato nel 1990, l’editore chiese all’autore se volesse pensare a un nuovo titoloper l’opera che nel ’68 aveva raccontato gli orrori del regime sovietico: “Che ne dite di ‘Ve l’avevo detto, razza di idioti?'”, rispose Conquest.

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