Abolire il carcere? La proposta è assurda, impraticabile e pericolosa. Nelle carceri devono essere trattenuti gli individui che sono pericolosi per gli altri, e la cui pericolosità può essere limitata ed esaurita soprattutto attraverso una separazione forzata dalle persone a cui possono nuocere e dai mezzi con cui possono nuocere. Quelle che, a occhio e croce, dovrebbero costituire meno del cinque per cento della popolazione carceraria italiana attuale. Scriveva saggiamente l’editoriale del Foglio sabato scorso, “Forse per sognare, senza rischi, di abolire il carcere, bisogna anche avere la possibilità di usare la forza”. Per dire che la pretesa giusta, sensata, logica, utile alla comunità di abolire le galere, non può mantenersi sui toni utopistici e fanatici di quando si pretendeva di “liberare tutti”: per consentire al nostro mondo di abolire le galere bisogna essere disposti a usarle. Ripeto: a occhio e croce per meno del cinque per cento della popolazione carceraria italiana attuale.
In realtà, l’editoriale del Foglio non parlava del carcere. Parlava della guerra, di abolire la guerra, e di avere la forza necessaria a permettere che questa abolizione fosse garantita nella maggioranza dei casi. Ho sostituito la parola guerra con la parola carcere. I due argomenti si assomigliano: si riferiscono alla possibilità dell’uso della forza in casi straordinari e ponderati al fine di scongiurare ingiustizie, sofferenze e abusi della stessa forza in tempi e casi ordinari.
Parlando di carcere, cosa vuol dire? Rimanendo al paragone con la guerra, la situazione odierna è medievale: quando non c’erano potenze militari democratiche e gli interventi militari non richiedevano fondamenta morali o di difesa. Quando non c’erano accordi e società di nazioni che decidessero gli interventi in base ai bisogni di protezione della comunità e a criteri di giustizia. Ogni conflitto di qualche rilevanza era affrontato con lo strumento della guerra. Oggi ogni delitto di qualche rilevanza è affrontato con lo strumento del carcere. Le pene carcerarie in Italia hanno quattro funzioni: punire, rieducare, reinserire e fare da deterrente. La punizione, benché di nessuna utilità pratica per la società, è sentita ancora come necessaria da molti suoi membri: ma i suoi effetti collaterali, come vedremo, creano danni straordinari a fronte di nessun beneficio (che me ne viene se quello che mi ha rubato l’autoradio sta un mese o un anno in galera?). La rieducazione, con rispetto per i coraggiosi tentativi di pochissime strutture quasi tutte esterne all’amministrazione penitenziaria, non esiste. Non esiste. Il reinserimento, idem. Non esiste. Il ruolo di deterrente esiste, ma è assai insufficiente una grossa parte dei detenuti torna a commettere reati e non ha nessun rapporto immediato con la detenzione. La reclusione, la privazione della libertà, scelte per far da minaccia per le cattive tentazioni, sono un’abitudine culturale assolutamente sostituibile, una volta individuati dei sostituti adeguati. Morale: oggi il carcere svolge solo una funzione deterrente, in modo insufficiente (e una taciuta ma bene accetta di rimozione fallimentare di problemi). In cambio, forgia e rinnova popolazioni di delinquenti, rovina vite, perpetua ingiustizie, ha costi economici altissimi, ed è una soluzione fallimentare ai problemi della droga e della criminalità. Quando capita che un grave reato venga compiuto da qualcuno che era stato da poco rilasciato da una galera, è giusto ribellarsi, protestare e contestare le autorità: ma non quelle che hanno provveduto a quell’inevitabile rilascio (a meno che non si auspichi il carcere a vita per chiunque vi metta piede), bensì quelle che hanno legittimato e ignorato la sua mancata rieducazione (uso la sgradevole parola rieducazione, per capirsi: ma fa un po’ schifo). Ogni reato compiuto da un ex detenuto è un fallimento dell’amministrazione della Giustizia e dei suoi responsabili, un fallimento del nostro sistema penale, a cui è legittimo chiedere conto della responsabilità di quel reato.
Questa settimana l’Economist ha pubblicato una lunga inchiesta sulle carceri italiane. Ecco alcune delle considerazioni che ospita: “Nessun politico in Italia pensa che parlare di misure carcerarie meno rigide possa far guadagnare voti. Ma questo non vuol dire che non sarebbe giusto farlo. In poche parole, l’Italia manda le persone in prigione troppo volentieri e se ne disinteressa troppo quando escono. E parlando di droga e crimini violenti, le due piaghe che il carcere dovrebbe curare, questo ha fallito drammaticamente. Le carceri sono il nido dove crescono terribili problemi, sia medici che sociali, che rapidamente si diffondono all’esterno. Per molti italiani, la pena è semplicemente una punizione. Ma anche questi dovrebbero preoccuparsi che le carceri funzionino bene. Ogni detenuto che ne esce non rieducato ricomincerà subito a commettere delitti. E anche se venisse arrestato subito, questo ha dei costi altissimi. Il detenuto tipo entra in prigione già svantaggiato sotto ogni aspetto. Ha maggiori probabilità della media di essere povero e di povera educazione, di non aver avuto un lavoro fisso, di essere un emarginato, di avere dei problemi mentali e di far parte di una minoranza. Il carcere potrebbe ridurre alcuni di questi svantaggi sociali: di solito non lo fa. Quindi il detenuto di cui sopra esce dal carcere con tutti i problemi che aveva quando vi è entrato, con l’aggiunta di essere stato in carcere, ovvero ancora maggiori difficoltà a trovare un lavoro o anche un posto dove vivere. La rieducazione è divenuta una specie di parolaccia nel dibattito sul crimine in Italia. Il sistema penitenziario italiano sembra progettato in modo che i detenuti rimangano criminali. Fuori dal carcere, l’attenzione è ancora minore: la quasi totalità dei detenuti è semplicemente messa alla porta”.
In realtà l’inchiesta dell’Economist parla delle carceri americane: ho sostituito io l’America con l’Italia. È stato facile, benché le cifre e i fallimenti del sistema carcerario statuinitense siano molto più impressionanti: ci mostrano la direzione dove stiamo andando, sul piano della lotta contro la criminalità. Negli occasionali casi e tempi in cui le cifre mostrano qualche successo, i miglioramenti avvengono non grazie all’uso che si fa del carcere, ma malgrado questo.
Pensare di abolire il carcere è ingenuo: questo mondo ospiterà sempre persone pericolose, siano boss mafiosi, violenti malati o dittatori iracheni. Pensare di abolirne gli abusi, gli effetti catastrofici sulla comunità e sui singoli, i costi, e le inutili disumanità, e studiare e consentire misure diverse, nuove ed efficaci, “ha buone ragioni anche solo sul piano morale”, scrive l’Economist. Ma anche “combattere la criminalità” non è una brutta intenzione: non è detto che non porti voti.
L’inchiesta sul sistema penitenziario americano dell’Economist di questa settimana (corredata da un duro editoriale) contiene cifre e valutazioni illuminanti. Gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di detenuti dell’Occidente, avendo superato anche la Russia: negli ultimi 25 anni si è passati da 110 detenuti per ogni centomila abitanti a 478. Se alle carceri federali si sommano le prigioni locali, si arriva a 700 (in Gran Bretagna sono 132, in Francia 85, in Italia poc meno di cento). Circa due milioni di americani sono in galera e quattro milioni e mezzo sono fuori sotto condizione. Il 7% degli adulti e il 12% degli uomini sono stati condannati almeno una volta. Uno su venti è stato in galera. Negli ultimi vent’anni, la percentuale dei detenuti per droga è decuplicata. Tre quarti degli ex detenuti hanno avuto problemi di droga. Uno su cinque ha dei disagi mentali. La pena media è di 28 mesi. Una ricerca in cinque grandi città ha mostrato che il 65% degli intervistati non darebbe lavoro a un ex detenuto. In stati come l’Illinois, è la legge a vietare agli ex detenuti l’esercizio di decine di professioni (tra cui quelle di manicure e barbiere). Negli ultimi quindici anni, dopo una serie di interventi legislativi che hanno ridotto il potere e l’attività delle commissioni di sorveglianza, la percentuale dei liberi sotto condizione che non supera la prova ed è rimessa in carcere è salita dal 30% al 58%. Due terzi degli ex detenuti sono riarrestati entro tre anni dal rilascio. Nel 1997 un quarto dei sieropositivi o malati di AIDS americani erano usciti dal carcere in quell’anno. Per molti condannati, l’abolizione del diritto di voto è perpetua e sopravvive al termine della pena. Poiché la maggior parte degli ex detenuti vota per i Democratici, uno studio ha sostenuto che se questi riavessero il diritto di voto a fine pena, Gore avrebbe vinto in Florida.