“Oooooh!”, fanno tutti. “Oooooh!”, fanno quelli eleganti sulle tribunette. “Oooooh!”, fanno gli scommettitori pigiati contro le staccionate. “Oooooh!”, fa il pubblico dei posti economici sulle gradinate in fondo alla pista. “Oooooh!”, fanno quelli fuori, negli spazi dietro le tribune, davanti ai maxischermi, con i bollettini delle scommesse fatte stretti in mano. Gli unici che non fanno “Oooooh!” davanti alla rovinosa caduta di Moscow Flyer, il favorito, a quattro ostacoli dall’arrivo, sono i bookmakers. I bookmakers fanno “a-ha!”, e si fregano le mani.
L’anno scorso fu un anno terribile per i bookmakers, a Cheltenham. Vinsero tutti i cavalli favoriti, e loro ci persero un sacco di soldi. Il giro di scommesse su Cheltenham supera quello di qualsiasi altra riunione ippica. Ma “riunione ippica” è un termine riduttivo. Gli inglesi lo chiamano “festival”: sono tre giorni di gare, sette gare al giorno, attesi tutto l’anno dai fanatici dei cavalli, dai fanatici della scommessa, dagli addetti ai lavori. Con i cappellini e le toilette vistose si va ad Ascot; con i bambini e le famigliole si va a Grand National; con i soldi, le riviste del settore e gli appunti si va a Cheltenham, a scommettere. Per gli appassionati di sport quassù è l’evento più appassionante dell’anno, scopro: e io non sapevo nemmeno che esistesse.
Cheltenham si trova in un punto per me tutt’ora imprecisato dell’Inghilterra, un paio d’ore di treno a ovest di Londra. Mi ci hanno portato incappucciato, praticamente. Di fronte alla mia evidente ignoranza del settore ippico, GQ mi ha assegnato a una guida locale che ha concluso che un uomo che non sappia di cavalli non sarà capace nemmeno di salire su un treno da solo, e così sono stato guidato qui senza che potessi nemmeno consultare una cartina. Ma ho tenuto conto del tempo e della posizione del sole, seguendo l’insegnamento di Pollicino e di Robert Redford nei Signori della Truffa. E poi mi sono documentato, in treno. Di solito a Cheltenham vivono circa centomila persone, ma nei tre giorni delle gare – che dall’anno prossimo diventeranno quattro, in nome del business – ne arrivano altre centocinquantamila da tutta la Gran Bretagna e dall’Irlanda. Anzi, la calata degli irlandesi è un aspetto tradizionale del festival: un po’ perché si ritengono gli inventori della corsa a ostacoli, un po’ perché Cheltenham si raggiunge con relativa facilità dall’Irlanda. Ne arrivano a frotte e costituiscono una vivace e visibile tifoseria nazionale. Si appassionano ai loro cavalli e ai loro fantini, vengono apposta per loro, e fanno un tifo sfegatato. Quaggiù gli inglesi li guardano con rispetto e ammirazione per la devozione e l’entusiasmo che investono in tutto questo. E comunque, inglesi o irlandesi, alla fine di ogni giornata saranno tutti abbastanza ubriachi da non ricordarsi da dove vengono.
L’ultima volta che ero entrato in un ippodromo facevo il liceo, ed era quello di San Rossore, a Pisa: lo scommettitore italiano che ho conosciuto sul treno muta improvvisamente contegno nei miei riguardi. La frequentazione di San Rossore mi fa guadagnare dei punti. Mi consente di saper riconoscere espressioni come “picchetto” e “cavalli al tondino” e di calcolare il significato matematico delle quote. Per il resto, è tutto diverso: per colpa dello spazio e per colpa del tempo.
Il mondo delle scommesse è stato rivoluzionato da internet. E in italia, anche dalla liberalizzazione di scommesse che un tempo erano vietate: ma lacci e lacciuoli lo vincolano ancora a regole assai più rigide che in Inghilterra. Che sia giusto o no, devo ancora capirlo: ma i miei consulenti sono indignati. Però è la moderna tecnologia ad avere cambiato le cose per tutti: l’accesso alle scommesse è diventato molto più semplice, l’offerta più ricca, i meccanismi più vari ed eccitanti. Tutte le maggiori società di scommesse britanniche sono diventate dei colossi internazionali trasferendosi su internet e aprendo nuovi mercati; e le potenzialità della tecnologia sono state sfruttate ancora meglio da due signori che si sono inventati un servizio in cui non si accettano scommesse, ma si consente a ciascun utente di accettarle, stabilire le proprie quote, e di diventare lui stesso bookmaker. Si chiama Betfair ed è uno dei maggiori boom economici legati all’uso della rete: quelli del settore usano l’espressione “before the revolution” per indicare il mondo delle scommesse prima di Betfair. Alcuni poi sostengono che rendere ognuno potenzialmente un bookmaker significa rendere ognuno potenzialmente un corruttore di fantini, e accresce il rischio di corse truccate.
Quanto allo spazio, beh, quando mi affaccio sull’ippodromo di Cheltenham quello che mi trovo davanti non ha niente a che fare con il grazioso impiantino all’ingresso della pineta di San Rossore. Questo è quasi un aeroporto. Il tracciato si districa in diramazioni alternative alcune delle quali si perdono lontanissime dalle tribune. Quando i cavalli sono dall’altra parte della pista, si può seguirli solo sui maxischermi, tanto sono lontani. In mezzo, prato e prato e prato, Sullo sfondo, un largo giro di colline. “In questa meravigliosa cornice” direbbe il cronista nostrano. Addosso, è cresciuta una cittadella di bar, ristoranti, negozi, tendoni, strutture varie e persino un centro commerciale – “The centaur” – dedicato tutto alle scommesse. C’è gente che viene a Cheltenham e passa i tre giorni al Centaur senza mai vedere il prato se non in tv.
Ma anch’io, prima di arrivare a vederlo, ho dovuto fare un bel pezzo di strada, segnata dai diversi gruppi sociali e umani di cui sono fatti i cinquantamila che hanno pagato biglietti anche di centinaia di sterline. All’ingresso, seguo una folla quasi esclusivamente maschile di semihooligans che paiono usciti da un film di Ken Loach. Dentro, li rivedrò quasi sempre in compagnia di una pinta di birra, soprattutto gli irlandesi. Poi attraverso una ridotta zona di ragazzotti venuti per l’evento in combriccole, pronti a scommettersi qualche spicciolo, alcuni con la ragazza vestita come le ragazze inglesi nel dì di festa. Passo accanto alle tribune centrali, comincio a vedere qualche ricerca di eleganza, versione rurale dell’Ascot style. La ricercatezza sale nelle tribunette private, i miniappartamenti privati con vista sul traguardo. In fondo, ci sono le tende e i prefabbricati delle società di scommesse, che vi invitano i loro ospiti, li nutrono e li coccolano gratis. Come ha scritto un giornalista dell’Observer, “se un giorno vi invitano, non vi montate la testa: vuol dire che gli avete fatto guadagnare tanti soldi da farli sentire in colpa”. Vicino alla pista, poi, ecco la zona dei piccoli bookmakers, circondati da gruppi di omaccioni con il nodo della cravatta allentato e mazzetti di bollette in mano. Altri simili a loro resteranno per tutta la giornata alle spalle delle tribune, guardando le corse solo nei maxischermi e strappando via via i bollettini in mucchietti di coraindoli sempre più cospicui man mano che cala il sole.
Quello è il gesto che preferisco, in tutto lo spettacolo: il momento in cui, a gara non ancora finita, il giocatore prende atto che il suo cavallo ormai è tagliato fuori, toglie lo sguardo dalla corsa e si gira all’indietro strappando la ricevuta della scommessa. Poi butta per terra i pezzetti, e si infila le mani in tasca, tornando a rivolgersi all’arrivo della corsa con l’aria di quello per cui niente di tutto questo conta più niente.
Beh, quello sguardo lì è adesso diffusissimo intorno a me, ora che nella gara centrale e più importante della giornata, quella con un monte premi di 250 mila sterline, Moscow Flyer, cavallo irlandese e il-favorito-della-vigilia, ha improvvisamente frenato davanti al quartultimo ostacolo, salvo scattare ancora sotto la disperata spinta in avanti del suo fantino, ma ormai scomposto: atterra sulla siepe, cade in avanti, disarciona il giovane Geraghty – che poi davanti alle telecamere sembra davvero un ragazzino – e si rialza caracollando mentre i suoi rivali si allontanano ancora combattivi verso il traguardo. Vince Azertyuiop, un cavallo francese. Gli irlandesi, abbattuti, lasciano gli spalti e vanno a ordinarsi una Guinness. Io vado a ordinare un’altra fetta di torta al cioccolato con panna e fragole: è già la quarta e mi sento un po’ Guido Oddo, che raccontando ogni anno Wimbledon per televisione, non faceva mistero che la cosa che più lo appassionava erano le fragole con la panna.
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