What’d I Say

Ho visto Ray, che ieri Jamie Foxx ci ha vinto il Golden Globe. Non so se avete notato che a fare personaggi con atteggiamenti fisici un po’ estremi si parte sempre avvantaggiati con le lodi e i premi, ma Jamie Foxx è in effetti bravo (per un minuto nel film si vedono i suoi occhi formidabili e ci si rende conto del sacrificio che deve aver fatto).

Ray, il film, è debole debole, secondo il presente blog. Sono andato gasato dalle recensioni americane (ne parla piuttosto bene persino David Denby) e senza essere un grande fan di Ray Charles. Sono uscito annoiato dal film ed eccitato dalle musiche. Certo, uno le sa già, le canzoni di Ray Charles: ma messe lì dentro e in un buon cinema, sono la fine del mondo. Oggi passo la giornata a sentirmi la colonna sonora: anche se è una raccolta (io vado matto per copertina e titolo di “Modern sounds in country and western music”) è una signora raccolta, con diverse versioni dal vivo.

Ray, il film, ha un paio di cose forti, ma incidentali, poco sfruttate: una è che pur ricadendo nel genere biografia-di-mito-americano e non lasciandosi sfuggire nemmeno un cliché del genere, il mito è raccontato come un vero stronzo. Con le attenuanti di un’infanzia terribile e traumatica, Ray si comporta disumanamente e meschinamente per tutto il film: fa una sola cosa positiva in due ore – rifiuarsi di suonare per dei razzisti – e per il resto delude tutte le persone che gli vogliono bene con indifferenza psicolabile. L’altra posizione anomala del film è il giudizio netto sul periodo post-Atlantic di Ray Charles: quello dei violini, della musica “commerciale” e facile. Quando la questione viene affrontata, nel film, gli spettatori non possono che fare i paragoni e convincersi che è così. Per un film hollywoodiano che vuole far vendere altre milionate di dischi compreso quel periodo (pieno di perle, ma in effetti discendente), è una scelta particolare.

Ray, il film, è formidabile in tutte le parti musicali. Mettici la musica di Ray Charles, mettici la contestualizzazione (imbarazzante solo nella creazione di Hit the road, Jack), mettici le interpretazioni di Jamie Foxx, ti viene da saltar su e ballare sulla poltroncina, come fanno tutti quelli nel film in quei momenti.

Ray, il film, è pieno di ruffianate sentimentali, cliché, banalità e sviluppi grossolani (Charles Taylor su Salon dice che non importa, che il film è la musica e il talento: contento lui). Taylor Hackford, il regista, è uno che da Ufficiale e gentiluomo in poi è stato capace al massimo di una sapiente maniera patinata. L’unico momento di vero cinema l’ha vissuto montando il leggendario Quando eravamo re, che vinse l’Oscar come documentario (il paragone tra Ray e Ali – a proposito – viene immediato, ed è il paragone tra taylor Hackford e un grande regista). Il risultato è che il film è noioso, a momenti involontariamente comico. Non c’è un’invenzione, un’idea, una riflessione più che che superficiale. Questo lo dico io: a David Denby è piaciuto.

Ray, il film, ha dei dialoghi poverissimi e prevedibili al limite del ridicolo: a un certo punto facevamo a indovinarli. L’eroina viene sistematicamente e pudicamente definita “quel veleno”. Ma i dialoghi sono ulteriormente devastati dalla traduzione italiana, che fa dire a Jamie Foxx “io sono un intrattenitore”, o mantenere letteralmente la battuta “il limite è il cielo”. Oggi ho accennato a queste cose in radio, a Condor, e mi ha scritto una gentile ascoltatrice che traduce i film per lavoro: concordava, ma mi faceva presenti i tempi precipitosi a cui lei e i suoi colleghi vengono costretti a lavorare. Conosco benissimo lo sfruttamento dei traduttori, in ogni settore: ma penso che se i traduttori sono mal pagati, poco premiati e costretti a lavorar male, è perché il risultato del loro lavoro è del tutto ignorato. Quando i critici cinematografici e il pubblico cominceranno a stroncare e snobbare i film per il risultato della traduzione, i distributori dovranno starci più attenti. Io faccio la mia miserrima parte da blogger, da qui: le traduzioni di Ray devastano il film.

Ecco, torno a sentirmi la versione live di You don’t know me, quella del Giorno della marmotta

New Yorker, IMDB

Abbonati al

Dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo.

E dal 2010 il Post ha fatto molte cose ma vuole farne ancora, e di nuove.
Puoi darci una mano abbonandoti ai servizi tutti per te del Post. Per cominciare: la famosa newsletter quotidiana, il sito senza banner pubblicitari, la libertà di commentare gli articoli.

È un modo per aiutare, è un modo per avere ancora di più dal Post. È un modo per esserci, quando ci si conta.

Abbonamento mensile
8 euro
Abbonamento annuale
80 euro
Scaricare la musica dal web è legittimo