Avevo le dita incrociate

È un’obiezione che in America qualcuno avrà fatto senz’altro, ma sul caso Miller-Plame-Rove circola tra gli altri un parere che mi pare del tutto campato in aria. Quello per cui si debba distinguere tra una fonte giornalistica che aiuta a conoscere un sopruso o un reato compiuto da qualche potere (e per questa ragione vuole restare anonima, temendo in quando debole e onesta) e una fonte che fornisce delle informazioni per invece mantenere o accrescere un proprio potere o interesse (e quindi vuole restare anonima per non smascherare le proprie intenzioni, in quanto forte e disonesta). Naturalmente i due casi sono diversi sotto una quantità di aspetti: ma non lo sono per ciò che riguarda Judith Miller e la sua sorte, quella del carcere fino a che non fa il nome della sua fonte.

La pretesa di distinguere nettamente l’interesse della fonte e l’interesse del pubblico è infatti del tutto irreale. Come si sa, la stessa Gola Profonda aveva i suoi interessi nell’aiutare a svelare il Watergate. La tutela della fonte prescinde persino da ciò che la fonte rivela. Se la Miller ha garantito tale tutela è legittimo e sacrosanto il suo silenzio anche nel caso in cui la fonte non le avesse detto niente di niente. Naturalmente, come tutti i principi e come il rispetto delle promesse e dei giuramenti, anche questo conosce la necessità di eccezioni straordinarie, che è facile immaginare: pericoli imminenti, soprattutto. Ma è assurdo che si voglia condannare il rigore della Miller a partire dalla maggiore o minore simpatia per chi è tutelato da questo rigore. L’intenzione della fonte di manipolare il giornalista per propri fini, poi, è valutata e soppesata dal giornalista stesso. Che potrà anche sbagliarsi, ma di certo non è questo il caso: la Miller non ha scritto niente di ciò che le è stato detto, quindi accusarla di essersi fatta manipolare è una fesseria e basta.

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