Poesia di un’età che non ritorna

Sofri, quello anziano, sul Foglio di oggi:

“Io prendo sul serio le avventure del direttore di questo giornale, e questo mi costa parecchia fatica. Specialmente perché sempre più spesso lui evoca problemi che, salvo imprevisti, non succede di porsi da molti anni, o almeno, non con quella sensazione di scelte fatali. Posso ricostruire che dei più fatali fra questi problemi non mi occupavo dall’età di quattordici anni: ciò che conferma come siano seri, perché a quell’età si è, se non più intelligenti (più intelligenti si è, e si smette di essere, molto prima), senz’altro più concentrati e appassionati, e nel mio caso e di tanti altri, l’età in cui si smette di credere in Dio. Per affrontare le avventure del direttore, devo dunque sforzarmi, più che di pensare alle questioni poste, di ricordarmi che cosa ne pensai a quel tempo fatale. Ieri non ho trovato Libero e l’annuncio di Renato Farina sulla conversione dichiarata di Giuliano, né sono riuscito ad ascoltare Giuliano stesso alla radio, e devo dunque attenermi alle cronache, specialmente sul punto più rilevante, cioè la convinzione che esista un principio intelligente nell’evoluzione biologica. Non mi fermerei sul pettegolezzo, cioè l’eventualità che l’idea sia stata espressa tempestivamente, in solido con la sequenza di dichiarazioni di Bush e di primati della Chiesa cattolica sulla necessità del disegno divino nella storia dell’evoluzione, e magari con l’attesa dell’uditorio. Il problema è molto più antico, e durerà più a lungo delle voghe creazioniste e di tutti noi. Quando avevo quattordici anni, più o meno, mi dissi che l’intelligenza fosse una specie di specchio attivo, che capisse il mondo secondo la propria forma, e a sua volta la proiettasse sul mondo. Sicchè riconoscere un disegno intelligente nelle cose che stanno fuori di noi è ragionevole e anzi tautologico. La nostra intelligenza, cioè noi, fa corrispondere il mondo a se stessa, dunque lo rende intelligente. La svolta dei quattordici anni era qui, se la memoria non mi tradisce: non nel rinnegare Dio -anzi, gli si poteva restare affezionati, come al primo antenato- ma nel capovolgere il rapporto con lui. Invece di esserne stati fatti a sua immagine, l’avevamo fatto a nostra immagine. Dunque anche smettere di credere era un modo sbrigativo e orgoglioso di dire la cosa: non si smette di credere a qualcosa perché si scopre di averla creata noi -i nostri antenati e noi stessi, fino a un momento fa, alla conversione- piuttosto che di averla ricevuta dal Creatore. Questo ragionamento, che ora mediocremente ricapitolo, per ragioni di spazio, e perché negli ultimi cinquant’anni sono molto arrugginito, dura ancora nella mia persuasione che non è affatto vero che quando non si creda più nell’esistenza di Dio tutto diventi lecito: non dirò che sia vero il contrario (ne sono molto tentato, in realtà), ma dirò che la verifica dei fatti mostra almeno una equanime divisione. Allora, riportato il Creatore all’intelligenza di progenitori, antenati, genitori e mia stessa, mi sembrò evidente, e mi sembra ancora, l’esistenza del mondo prima e indipendentemente dagli umani, e diffidai allora e diffido tuttora dell’intellettualismo che riduce il mondo alla percezione che ne abbiamo noi umani, quando non i soli filosofi soggettivisti. Nell’esistenza del mondo prima e durante la sua popolazione da parte degli umani non riuscii e non riesco a rintracciare alcun disegno, né divino né diabolico: benché non mi tiri indietro nei momenti estremi, quando pronunciare queste parole, care come tutto ciò che ci è appartenuto e cui ci siamo aggrappati nella durezza della vita, e specialmente le parole, serva a esprimere la nostra speranza o la nostra disperazione. Questo mi distingue dalle persone che sentono e raccontano la propria impossibilità di credere con la crudeltà e l’iniquità delle vicende del mondo, come il terremoto di Lisbona, che scosse tanto Voltaire, e veniva ancora invocato da Norberto Bobbio, per dire la propria fede mancata. Non vedo alcun disegno intelligente nella storia naturale, se significhi la provenienza da un’intelligenza superiore, esterna o immanente. E’ bella l’idea che la natura delle cose ci sia matrigna, non per cattiveria, ma per distrazione e indifferenza. Della storia umana, con la quale un’intelligenza coincide per definizione, sono persuaso non solo che sia andata in direzioni differenti e spesso opposte ai propositi degli autori umani, ma che abbia preso una strada tale da piegare alla rovina la stessa storia naturale. Dunque che la storia umana vada diventando involontaria -per lo più: a volte c’è perfino un miserabile dolo- matrigna a sé e alla stessa natura. Scacco dell’intelligenza umana, cui anche la rinuncia poetica all’intelligenza divina dev’essere ascritto. Così mi sembra di aver pensato quando avevo quattordici anni, dunque al momento giusto, e di pensare ancora, un po’ più ottusamente, un po’ più pessimisticamente. Ma all’intelligenza umana in generale, dunque anche alla mia in particolare, si associano un’altra distrazione, un’anestesia, un’allegria, e insomma le cose di cui si tira avanti. Voglio aggiungere, tutt’altro che formalmente, la convinzione, questa fondata sulla prova dei fatti altrui, che chiamiamo solennemente storia, e miei, cioè sul mezzo secolo che mi separa dai quattordici anni, che la fede positiva in Dio o la miscredenza militante o l’agnosticismo lucido lascino impregiudicata l’adesione di ciascuno di noi al bene o al male, che dipende in ultima istanza da ciascuno di noi, e ci assicura la libertà, il suo peso e la sua leggerezza. Non mi permetterei mai di denunciare nella fede positiva un’assenza di fondamento alla morale o una sua mutilazione o perversione, e mi aspetto che il reciproco avvenga per l’assenza della fede. In generale, la reciprocità è la principale condizione dell’intelligenza, e della libertà. Personalmente, ma qui si tratta della tempra di ciascuno di noi, trovo più appassionante e ammirevole l’impegno alla vita buona in chi non riconosca alcun disegno divino o maligno e comunque intelligente nel mondo in cui siamo stati gettati. Mi scuso di aver detto cose simili in fretta e senza discrezione: volevo farmi vivo col direttore. A quattordici anni avrei fatto meglio”

Il Foglio

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