Ve ne siete accorti

Filippo Ceccarelli, su Repubblica:

“Quando la politica si sposa con l’algebra, e l’anagrafe si applica al potere, la questione generazionale italiana emerge in tutto il suo inquietante fulgore. Tra Silvio Berlusconi, 69, e Romano Prodi, 66, fanno in tutto 135 anni, e qualche mese. Con qualche azzardo contabile ce n’è quanto basta per tre aspiranti premier di 45 anni. Qui invece sono solo due, gli stessi di dieci anni fa, e non è consolante per nessuno che si rinfaccino l’un l’altro di essere bolliti.

Si fanno i conti maliziosi sull’età, intanto si cerca di immaginare – come l’altro ieri nella tavola rotonda con Veltroni e Rutelli – il partito democratico del domani. Possibilmente giovane.

Però l’invecchiamento comincia a far notizia anche all’estero, vedi l’Economist, dove pure non è passata inosservata l’ipotesi di una possibile rielezione al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi, che al termine del suo secondo mandato di anni ne avrebbe 92. Intanto Cossutta non molla, Tremaglia continua a ruggire e Scalfaro raccoglie esultanze girotondine. Non solo, ma di un regime che sempre più vive di rappresentazioni, da gerontocratica che era, la scena pubblica sembra assaporare le delizie della gerontolatria.

La vecchiaia, scrive Cicerone nel De Senectute, è il compimento della vita «e anche l’ultimo atto della commedia» (peractio tamquam fabulae). “Villa Arzilla” si chiamava appunto una non dimenticata sit-comedy all’italiana, come dire una evoluta specie di fabula andata in onda su Rai2. Ragion per cui, fra mille incombenze, da un paio di settimane Giulio Andreotti reclamizza i telefonini; così come nei mesi scorsi Francesco Cossiga ha partecipato a un dibattito con Melissa P., quella dei cento colpi di spazzola. In compenso, o a parziale auto-risarcimento, l’emerito presidente della Repubblica ha smesso di chiamare Berlusconi «il ragazzo», quando non «il ragazzino».

E se il quadretto sembra troppo colorito, se appare eccessivo raffigurare l’Italia sulla base della supremazia degli anziani nell’immaginario, delle pubbliche richieste di Viagra e delle riforme (Tfr, pensioni e devolution) destinate ad applicarsi nel futuro remoto, beh, converrà qui riferire che in un recente convegno di politici e imprenditori c’è stato un giovane musicista – Filippo Del Corno il suo nome – che ha proposto la creazione di specifiche quote giovanili «arancioni». Il che sarebbe un po’ come issare bandiera bianca.

Di tutto questo, occorre aggiungere, la classe politica deve aver perfino maturato qualche consapevolezza. Ma francamente non basta mettersi la cuffia con Diaco, o portare i circoli giovanili di Dell’Utri in discoteca con Apicella, figurarsi.

La Prima Repubblica regolava i suoi eterni, striscianti conflitti tra giovani e vecchi con alterne fortune, ondeggiando fra rinnovamento e imbabbionimento. Disse una volta il 48enne Craxi, a proposito di Fanfani, che non sempre come il vino i politici migliorano invecchiando. E l’esempio della Pivetti sta lì a dimostrare la validità dell’assioma. L’ultimo consapevole patto generazionale risale all’accordo di San Ginesio tra De Mita e Forlani (1969), ai danni di Andreotti. Qualcosa si è poi visto con la «congiura» del Midas (1976) che mandò a casa De Martino; e poi all’inizio degli anni novanta con l’elezione dei sindaci (Orlando, Bianco, Rutelli, Cacciari, Bassolino, poi Albertini).

Vero è che in momenti di crisi – economia, terrorismo – l’Italia ha anche cercato un modello di autorità che non era più nemmeno quello del padre, ma addirittura del nonno, per sua natura dotato di esperienza, saggezza, discernimento. E in effetti con Fanfani, Pertini, Scalfaro, Ciampi, la Repubblica ha avuto anziani di eccellenza che meglio dei cinquantenni o sessantenni riuscirono a suscitare lo sforzo necessario al superamento degli appetiti egoistici. Ma è pure vero che d’un tratto cambia il vento; e il pensiero corre alla corsa per il Quirinale del 1992, alle candidature di tanti illustri ottuagenari e al cupo rimestare tra bollettini medici, complicazioni neurovegetative, incontinenza e sopori, torpori, carnitina.

Quando è troppo, infatti, è troppo. In Gran Bretagna, Francia, Spagna e ora in Germania quasi sempre si diventa presidente tra i 40 e i 50 anni. Vorrà pur dire qualcosa. In Italia, al contrario, Berlusconi ha ingaggiato una terribile e forse anche dolorosa lotta personale contro la vecchiaia. Lifting, trapianto di capelli, antiche foto da giovane fusto, trucchi di scena, manifesti ritoccati. Per giunta i suoi amici lo incoraggiano: «L’ho visto bello tonico, il futuro è ancora del Cavaliere – diceva l’altro giorno Fedele Confalonieri – Fini e Casini sono well looking, oggi a 50 anni si è giovanotti e a 80 anni si è ancora in forma. Berlusconi ne ha davanti almeno altri 12». Almeno. E se non bastasse, ecco il sindaco-gerontologo Scapagnini cucirgli addosso la più pimpante teoria sull’età biologica distinta da quella anagrafica.

Ma anche Prodi, pur incommensurabilmente più sobrio, lascia trapelare un affanno d’immagine. E allora sembra che imbocchi scorciatoie giovanilistiche, o accessoriali. Roba minima, che però si nota: al festival di Mantova si siede platealmente per terra; sfoggia al polso braccialetti della solidarietà; indossa un paio di occhiali ye ye, a montatura bianca e lenti rosa, dono del gruppo di Emily.

Più che il problema di una classe politica invecchiata e replicante, o di un paese inadatto a stare al passo con i tempi, sembra che in fondo sia Prodi che Berlusconi abbiano a cuore il loro personalissimo primato e la conferma della loro longevità. Ma intanto sentono incombere i leader cinquantenni che per forza di cose appaiono più integri, i Casini, i Veltroni, i Rutelli, i Fini, i D’Alema. Ne temono le segrete combinazioni, ne soffrono la vitalità, forse pure l’avvenenza nei confronti televisivi, negano che si tratti di «volti nuovi»: un po’ come Andreotti che alla richiesta di «fresh faces» da parte di Kissinger rispondeva che quella freschezza, almeno a Roma, rimandava ai «fresconi».

Però 136 anni, sia pure in due, sono tanti. E pesano sulla campagna elettorale come un sintomo che parla da solo; e dice che la politica, a volte, è quanto di più simile alla vita.”

repubblica

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