Liberarsi dalla par condicio

Titolo mio, svolgimento di Michele Serra:

“Qui si lavora e non si parla di politica”: era il cartello che occhieggiava in parecchie fabbriche del dopoguerra, quando fare attività sindacale spesso portava al licenziamento. Un analogo concetto sovrasta, in campagna elettorale, i palinsesti televisivi. Perché di politica, in tivù, si parla e si parlerà anche troppo: ma autorizzati a farlo sono solo politici e candidati. Nessun altro cittadino italiano, intellettuale o artista, giornalista o quant’altro, può permettersi anche solo di sfiorare argomenti di carattere politico. È contro la legge. Almeno su una cosa, dunque, Silvio Berlusconi ha ragione: la par condicio è una legge liberticida. Limita la libertà d’espressione e impedisce a chi fa televisione di lavorare con la necessaria serenità e indipendenza, e soprattutto di lavorare pensando agli interessi del pubblico. Quello che Berlusconi omette di aggiungere è che questo piccolo e ringhioso mostro giuridico è la diretta conseguenza del grande mostro che l’ha generato, quel conflitto di interessi che oramai disgusta perfino a dirlo, ma per nostra disgrazia esiste, e troneggia (da dodici anni!) al centro della dissestata scena politica di questo paese, nocciolo tossico della nube astiosa che ci soffoca, padre di tutti i veleni e anche, eccome, di quell’antidoto debilitante, e umiliante, che è la par condicio.

La legge nacque per fare fronte all’abnormità (meglio, all’assurdità) costituita dall’ingresso in politica di un monopolista della televisione e dell’informazione. Per quello che conta dirlo, oramai, fu una gigantesca e precedente omissione politico-istituzionale (non avere impedito a Berlusconi di candidarsi senza prima liberarsi delle sue testate e delle sue televisioni) a segnare, già nel ’94, la sconfitta delle regole democratiche, e la nascita inevitabile di una questione politico-giornalistica delicatissima e arroventata. Quel poco o quel tanto di autonomia dell’informazione dalla politica, e della politica dall’informazione, venne azzerata, nei fatti, dal coincidere, in una sola persona, di entrambi i poteri, e ai massimi livelli.

A parte pochi spiriti vassalli, chiunque lavori in televisione, non importa se a Mediaset o in Rai, vive molto malvolentieri l’epoca del conflitto di interessi, ma vive con indicibile fastidio anche le regole della par condicio. Della quale l’opinione pubblica conosce sicuramente le intenzioni e gli effetti per quanto riguarda la regolamentazione della presenza dei politici e dei candidati in televisione. Ma probabilmente ignora un altro aspetto se possibile anche più intrusivo, e sicuramente più lesivo della libertà professionale e dei diritti della pubblica opinione: nelle trasmissioni di ogni ordine e grado (intrattenimento, talk show, varietà, cultura, insomma tutto) è fatto esplicito divieto di fare riferimento a qualunque argomento che abbia possibili implicazioni politiche. Vale a dire: secondo la legge, un medico intervistato in un talk-show non può lamentare le cattive condizioni della sanità, o viceversa esaltarle. Un artista che abbia da ridire sullo stato della cultura in Italia (oppure lodarlo) deve astenersi dal farlo, e un uomo del calcio che voglia dire la sua sulla questione dei diritti televisivi è immediatamente imputabile, in campagna elettorale, di avere leso la regola del silenzio imposta dalla par condicio.

Non c’è angolo del palinsesto che sfugga al controllo obbligato di direttori di rete, responsabili di programmi e funzionari che vivono nell’incubo di sanzioni, censure post e pre. Dirigenti che, in questo strano paese, lavorano (oggettivamente) non tanto per difendere il loro prodotto, quanto per verificare che quel prodotto non urti la suscettibilità del potere politico e non infranga una legge che è stata varata da una classe politica che, non essendo riuscita a darsi una deontologia interna, ne impone una all’informazione. Come chi, soffrendo di incontinenza, imponga una purga ad altri.

E così – supremo paradosso – mentre la presenza della politica, e dei politici, occupa quasi militarmente i programmi di informazione, il resto della programmazione viene messo per due mesi in formalina, costringendo a evitare ospiti a rischio (in pratica, chiunque abbia qualcosa da dire su argomenti di interesse collettivo), a calibrare domande e risposte, insomma a evitare di parlare di ciò di cui tutta l’Italia, nel frattempo, parla: se la televisione è la vera piazza del paese, in campagna elettorale viene oggettivamente sequestrata dai politici, gli unici autorizzati a parlare, mentre la società civile viene zittita.

L’opinione del più oscuro dei deputati, in dosi di legge (che possono essere, come si vede, anche massicce), è somministrata quotidianamente. Quella di un costituzionalista, di un filosofo, di un intellettuale, di un cantante, di chiunque altro, pur se cittadino eminente, pur se i suoi meriti sono più evidenti di quelli di molti politici, viene sospesa per due mesi. Potrà scriverla sui giornali, ma non potrà esprimerla in televisione, perché durante la par condicio la libertà d’opinione, in video, viene sostanzialmente avocata dai politici.

Di fatto, dunque, la par condicio è quella legge che stabilisce le pari opportunità per la classe politica, e impone il silenzio a tutti gli altri. Simbolo stesso di un’occupazione ormai assoluta e paurosa dello spazio televisivo da parte non della politica (che è altra cosa, e appartiene a tutti), ma dei suoi funzionari abilitati.

Può anche darsi, come sostengono i difensori di questa legge così castale, e così antidemocratica, che non si potesse fare diversamente per evitare che il conflitto di interessi partorisse una definitiva e obbrobriosa disparità del volume di fuoco mediatico. Ma, evidentemente, da un male primigenio (il conflitto di interessi) non possono che nascere altri mali: rattoppi che rendono ancora più evidente e penoso lo sbrego, piuttosto che cancellarlo. Il risultato è che in campagna elettorale, proprio nel momento in cui le opinioni dovrebbero essere le più libere, e le più molteplici, la libertà di parola, in televisione, conosce vincoli davvero poco usuali in un paese abituato al dibattito democratico. È per questo che, di qui ad aprile, vedrete in televisione milioni di ore di comizi autorizzati, e pochissimi scampoli di altre opinioni autorevoli: quelle sfuggite, in un momento di incoscienza o di distrazione, al bavaglio della par condicio. Eccezioni che confermano una pessima regola.

Repubblica

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