Son caduto dalla nave, son caduto…

Stasera alle 21, al teatro Litta di Milano ci vediamo con Michele Serra. L’altra sera in tv si è riparlato di questo suo pezzo (qui il PDF) dell’estate scorsa, che qui era stato a suo tempo suggeritio.

“La parola “fame”, qui da noi, appartiene alla memoria degli avi e ai film di Franco Citti. È stata rimpiazzata da concetti più costumati, come “appetito”, che apparentano il gesto di nutrirsi a una garbata convenzione sociale piuttosto che al bisogno bestiale di mantenersi in vita. è dunque con allegro sconcerto che la odo echeggiare più volte, come leit-motiv programmatico, nel discorso di benvenuto ai croceristi (rotta Savona-Barcellona-Casablanca-Canarie-Madeira-Malaga e ritorno). «Se avete ancora fame…. se vi resta un po’di fame… se la fame non è passata… se siete ancora affamati…»: ecco l’impulso che dovrebbe condurci, tutti e millecinquecento, lungo i ponti e le ore del giorno, i ristoranti e i self-service, i bar e gli odorosi barbecue allestiti accanto alla piscina, nella ininterrotta migrazione in ciabatte che unisce il breakfast al brunch al lunch alla merenda al dinner al rabbocco di mezzanotte allo spuntino in discoteca: sì, mangiare, mangiare continuamente e molto, onorare l’agio del tutto compreso e festeggiare il lungo addio all’indigenza in un fescennino di succhi gastrici e ganasce, piatti ricolmi, camerieri prodighi. Quanto se ne vuole e quando si vuole, basta studiare giudiziosamente il labirinto degli orari, sapere che se la cornucopia del ponte 10 chiude alle cinque è perché apre quella del ponte 11, oppure basta seguire il flusso maggioritario della gente, quasi sempre diretta, a frotte, a nuove fonti di nutrimento. è il cibo il collante ideologico (il “comune sentire”) della crociera. E la motonave Costa Romantica deve avere stive incredibili, congelatori ciclopici e cambusieri più che abili per riuscire a stillare da ogni angolo montagne di roba da mangiare (sì, mangiare!) e fiumi di bevande. Discrasia evidente rispetto al nuovo culto parco e dietista degli abbienti, dei lettori di settimanali anche non intelligenti, del ceto medio oramai conscio che mangiare all’ingozzo richiama troppo sgarbatamente il nostro passato plebeo, tanto che nei ristoranti italiani, anche i più cheap, quasi nessuno ordina più antipasto primo secondo e dolce, non fa bene e non sta bene. è una gloriosa attitudine proletaria e residuale, quella del cibo eccedente e gioioso: ed è il primo indizio, questo, di quanto avessi sbagliato i pronostici sulla crociera, che ritenevo tipica vacanza da media borghesia sportiva, semilussuoso petit-tour per visitatori di porti e medine, moschee e centri storici, e invece è una poderosa bolgia di popolo in ascesa o anche di popolo e basta: sposini meridionali in viaggio di nozze grazie a una colletta dei parenti, pensionate che hanno risparmiato per anni per coronare il loro sogno da dèpliant, famiglie di operai e piccoli impiegati. Indizio implacabile, il numero bassissimo di passeggeri con un libro o un giornale in mano, forse uno su cento, e molto spesso con il Codice da Vinci. (Ne ho visto uno, un signore sulla cinquantina, che leggeva Svevo, e volevo proporgli un ammutinamento). Crudelissima, in questo senso, una breve scena pomeridiana, con animatori implacabili che costringono al Trivial Pursuit un gruppetto di anziane semiassopite: «Chi è il pittore contemporaneo famoso per le tele bianche tagliate?». No, le casalinghe di Voghera non sono tenute a conoscere Fontana. Infatti una dice «Giotto», poi si siede e si mette a ridere. Solo domande su Simona Ventura e Del Piero, please. Non sta bene mettere gli incolti di fronte al loro status: anche se se ne fregano, tutto sommato.

La crociera è un allestimento scenico per poveri che almeno dieci giorni all’anno vogliono sentirsi ricchi: i ponti si chiamano Montecarlo, Vienna e Verona, ristoranti e luoghi di riunione Michelangelo e Brunelleschi e trasudano marmi e ottoni come la hall di un albergo internazionale che punta alla clientela araba, il free-shop ha la sua scintillante vaghezza aeroportuale, t-shirt, sigarette, orologi, foulard e chincaglieria, le cabine (la cosa migliore della nave) sono comode e moquettate come bomboniere, ottimamente condizionate, e connesse alla terra madre dal satellite che infligge il commissario Rocca anche in pieno Atlantico. Piccola sbavatura, in questa accurata recita interclassista: nessun luogo al mondo, come una grande nave, è così spietatamente metaforico delle differenze di censo. Dalle cabine del ponte più basso (gli inferi) all’empireo dei ponti sommitali, il prezzo quasi raddoppia, e negli ascensori, schiacciando il bottone del ponte di pertinenza, ognuno svela spietatamente quanto ha speso, e a quale girone è stato assegnato, se quello nobilmente affacciato sul Mediterraneo oppure quello sprofondato nella pancia oscura della nave. Un ragazzo del Sud, ricciutello e simpatico, un po’ Troisi un po’Ninetto Davoli, in ascensore mi dice ridendo: «Sto al 5, ma per non farmi accorgere premo sempre il 10 e poi scendo per le scale». Già tutto ben detto nel Titanic di De Gregori, prima seconda e terza classe, anche se oggidì l’abito fa un po’meno il monaco e in shorts e maglietta ci si assomiglia tutti. Solo gli uomini dell’equipaggio si distinguono, con le uniformi inappuntabili che garantiscono il superiore decoro delle istituzioni. Tanto distanti paiono dal brulicante e sciatto transito della clientela sbracata, che una signora non particolarmente perspicace domanda a un ufficiale: ma voi, dormite sulla nave?

Chiedersi se sia il glorioso Love Boat a ispirare il clima e i modi della crociera, o viceversa il telefilm li abbia mutuati dalla realtà, è come chiedersi se sia la televisione lo specchio del popolo, o il popolo che si conforma al video, per cercare di esserne degno. L’uovo e la gallina. Sta di fatto che le signore, quando annotta, si imbudinano in abitini da sera e fanno la fila per partecipare al drink con il comandante, che è l’apogeo dello chic da crociera anche se cinque o seicento ospiti per turno non garantiscono intimità, più che un ricevimento è una Vucciria, e il comandante, poverello, è pur sempre uno solo, per quanto alto, abbronzato e perfino di bell’aspetto. I turnisti del drink (e di tutto il resto) non paiono però patire la carente esclusività dei riti di bordo, e si ammassano festanti in code da ufficio postale in attesa di afferrare il calice di spumantino, e farsi fotografare a braccetto con colui che deve apparire, sotto i lampadari a gocce e in mezzo a tutti quei velluti, poco meno di Horace Nelson. Il brivido marinaro, per il resto, è affidato a una squillante prova di evacuazione della nave, con le sirene e tutto il resto, che porta ad ammassarsi, con il giubbotto arancione, nei punti di ritrovo, tra schiamazzi e battute su naufragi e iceberg, abissi e pescecani, in una parodia dell’emergenza che almeno instilla nei partecipanti una vaga percezione del mare, dello stare in mare, del temere il mare, che immenso e silenzioso si apre alla prua e poi richiude a poppa, in lontananza, la ferita spumeggiante della scia. Già, il mare. Qualcuno, appoggiato ai parapetti dei ponti più alti, passa i minuti, il tempo di una sigaretta, ad osservarlo. Oppure ci si appiccica alle grandi vetrate delle cabine, come i visitatori di un gigantesco acquario, e si cercano nel blu infinito i soliti delfini o la vaga sagoma di un’isola, o della terraferma, o il segmento piatto e nero di una petroliera all’orizzonte. Ma di salmastro e di marino, a bordo di questo falansterio alto come un grattacielo, e lungo come dieci ristoranti messi in fila (tale è), ne arriva ben poco. In viaggio ci si consola con le due tinozze quadrate che fanno da piscina (otto per otto, direi), o con le vasche di idromassaggio, e si rimanda il contatto vivo con il mare alle soste, quando una spiaggia vera sia a portata di gambe (come a Malaga), o quando le gite in torpedone prevedano, oltre allo shopping compulsivo in suk e boutique, anche una sosta per fare un tuffo vero, finalmente, in acque vere.

A parte il cibo, in dose stordente, tutto il resto o quasi è extra. Vino e bevande, e va bene, ma poi il servizio, le gite a terra, il fitness, internet, ogni leggera deviazione dal pellegrinaggio continuo in cerca di nutrimento costa denaro. Si spende, caricando sulla prestigiosa Costa Card euro su euro, ma non si sfugge alla severa sorveglianza del personale amministrativo, che invita gli spendaccioni a recarsi all’apposito desk per dimostrare di avere l’acconcia copertura finanziaria, cosa che non mi era mai capitata neanche nei più sgangherati ostelli che frequentavo, effettivamente squattrinato, in gioventù. «Lei non ha idea di chi imbarchiamo», mi confida un’impiegata per giustificarsi di fronte alle mie rimostranze per l’eccessiva pedanteria dei controlli. «C’è gente che ha scassinato il frigobar prima di sbarcare. C’è di tutto, sa, a bordo». Le faccio osservare che la bassa qualità della clientela non è, per la precisione, tra gli addebiti che possono essere mossi a un presunto innocente. La mia replica cade nel vuoto. Far cadere le repliche nel vuoto dev’essere uno dei punti forti nell’addestramento del personale di bordo. Colgo, nel trascorrere dei giorni, una certa qual tensione tra clientela e compagnia, con impiegate transnazionali pallide e severe, occupatissime a rispondere «non si può» in tutte le lingue a qualunque richiesta appena insolita (tipo: mi hanno rubato il telefonino a Malaga, potreste per favore bloccare il mio numero con una telefonata alla Vodafone? Risposta: non è previsto dalle nostre regole). Dico che neanche in una pensione di sest’ordine rifiutano una cortesia a un cliente in difficoltà, ma capisco di rappresentare più una turbativa della disciplina di bordo che un caso di piccola emergenza. Non sono previsto dai regolamenti. L’ultimo giorno, però, capisco almeno in parte la gelida impenetrabilità che la compagnia oppone alle necessità dei passeggeri. Alla fila per pagare gli extra (lunghissima, l’ennesima) se ne aggiunge un’altra, appena più breve, di clienti che contestano, alcuni sbraitando, l’addebito di un caffè, o di una minerale. L’ordinata filiera della Costa Card sbanda e quasi deraglia mentre clienti e impiegate spulciano un numero pazzesco di foglietti di carta questionando sui centesimi. Il popolo è in subbuglio, quasi in rivolta, la crapula, vista dalla coda, si rivela più costosa e disagevole di quanto immaginato all’imbarco, l’orgia di fotografie (con il salvagente al collo, con il comandante, con i vicini di tavola, mentre si balla il valzer con il cameriere, mentre si fa il trenino – sì, anche il trenino – tra le bottiglie scolate) è sfuggita di mano ai fotografati, forse ne hanno comperate troppe e non se ne ricordano, comunque non le vogliono pagare, magari non possono proprio, spiantati dalla retta di crociera e con i soldi contati per rientrare, sui treni disgustosi delle normali tratte italiane non Eurostar, a casa, e mettere la foto del comandante accanto a Padre Pio. Si risolvono i contenziosi rimediabili, per gli altri ci sono appositi moduli per reclamare, la maggioranza inghiotte (dopo tutto quello che ha inghiottito) la spina di un conto sfuggito di mano, passarsela da semi-ricchi, sia pure in una cabina bassa e senza oblò, non è gratuito, o forse è tornare a casa e al proprio status abituale che costa davvero. Battute scontate tra gli sbarcandi, «la Costa costa», ma non è neanche giusto lamentarsi di quello, quando la sola lamentela lecita, per capire meglio in quale secca ci si è arenati, sarebbe domandarsi se è davvero necessario, per essere felici, fare il trenino al largo di Madeira.

Però bellissima la Rocca di Gibilterra, di notte, uno sperone di luci che squarcia il nero, e centinaia di navi che suonano la sirena salutando con un mugghio corale e struggente il mare domestico e affrontando l’Oceano, in memoria di quando l’Atlantico era l’incognito ed era l’addio. Ora è tutto compreso, bevande escluse.

Repubblica

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