Too old to rock’n’roll

Se pensassi che queste cose abbiano davvero importanza, direi che sono queste cose che rendono immobile, pigro e conformista, il rapporto con la musica pop. Ma per fortuna, il godimento della musica passa anche per altri canali. Detto questo, nel noioso e ospedaliero mondo della “critica” musicale italiana, esiste tra gli altri immutabili cliché l'”atteggiamento Repubblica”: quello per cui puoi stare certo che ogni nuovo fossile disco di un dinosauro del rock sarà celebrato come un capolavoro, salvo finire dimenticato nel giro di poche settimane. I giornalisti succubi di questo tic li conosco, più o meno: sono bravi, competenti e seguono il rock da decenni. Difficile che vengano travolti dagli strafalcioni in cui navigano i loro colleghi degli altri quotidiani maggiori: vengono da Rockstar, non dal festival di Sanremo. Ma per ragioni generazionali e per scarsi incentivi a mettere in discussione i comunicati stampa, per loro esistono solo i “mostri sacri”, e un luogo comune di rock che negli altri paesi è stato superato e rivisto da anni. In favore di una maggiore attenzione agli artisti degli ultimi anni e di una revisione dell’integralismo ideologico sui generi.

Insomma, tutto questo per dire che l’apertura della Domenica di Repubblica di oggi è una summa reazionaria e falsificatrice di questo giorgiobocchismo musicale (con rispetto parlando per Giorgio Bocca). Eccola qua:

“La vecchiaia del rock. Dylan, Waters, Jagger, McCartney. I grandi hanno tutti tra i sessant’anni e i settant’anni. Perché non hanno eredi o perché la loro musica è come quella di Mozart e Beethoven?”

Adesso, ci sono almeno dieci errori concettuali in questa titolazione. Basti dire che “i grandi hanno tutti tra i sessant’anni e i settant’anni” sarebbe una specie di tautologia, per questo modo di affrontare la musica e la modernità: per voi sono grandi solo se hanno tra i sessant’anni e i settant’anni. È l’andazzo della politica italiana trapiantato nella critica musicale: si tratti di Prodi, Berlusconi, Veronesi, Pippo Baudo, Ciampi, Napolitano o Dylan, Waters, Jagger e McCartney. Per tacere del fatto che Mozart e Beethoven smisero molto prima. Ma soprattutto, questi quattro nomi (per non farne altri: Neil Young, Paul Simon, David Bowie, eccetera) – di cui è indiscutibile la grandezza, pari a quella di Mozart e Beethoven – non hanno più niente a che fare con il presente: la loro discografia in questo millennnio è inutile, per quanto vi possa piaciucchiare questa o quella loro canzone recente. Il disco di Sufjan Stevens è molto più bello e importante dell’ultimo Roger Waters, quello di Damien Rice lo è più degli ultimi Neil Young, i Lambchop sono da tempo più bravi di Bob Dylan, Joe Henry lo è più di McCartney e Ben Folds di Elton John. Il disco di Antony è più bello e importante di quello di Paul Simon. I Bright Eyes valgono assai più di Joe Cocker (anche del primo Joe Cocker, direi).

Insomma, i “grandi” hanno un sacco di eredi, e ci sono giovani già più grandi di loro: ma se continuate a sostenere che il prossimo disco di Neil Young (uno dei più grandi di tutti) sarà appena più di una madeleine per i fans, non ve ne accorgerete mai (vi sfido, con rispetto per i gusti personali, a citarmi un solo disco dei summenzionati “grandi” degli ultimi dieci anni che stia tra i loro migliori cinque; non ce la fanno neanche Lou Reed e Costello, che pure si danno più da fare). Altrimenti, negli autogrill si continueranno a stravendere quelli che voi continuate a celebrare come “grandI” e così – altrettanto tautologicamente – potrete sostenere che siano ancora grandi. Perché vendono, negli autogrill.

p.s. L’obiezione potrebbe essere: ma lo fanno per i lettori di Repubblica, che vogliono leggere due pagine sull’inutile opera di Roger Waters, mica un’intervista ai Belle and Sebastian. Dite? E anche fosse? Io vedo che Le Monde e Libération si occupano di Piers Faccini e Chocolate Genius, mica di Sting e David Gilmour

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