Daniele Capezzone su Sergio D’Elia

“Signor Presidente, Colleghe, Colleghi,

è stato oggi depositato, in ciascuna delle vostre caselle, un accurato dossier sulla storia di una persona. Parla -certo- della storia personale e politica di Sergio D’Elia, ma parla anche -pur attraverso la lente di una singola vicenda- di un pezzo della storia del nostro paese.

Con l’onestà intellettuale che deve contraddistinguere il dialogo tra noi, in questo tempio democratico, io mi permetto di chiedere a ciascuno -prima di esprimersi, oggi- di confrontare quella storia, quelle informazioni, quella traiettoria umana, civile e politica, con la valanga di cose, più spesso con la valanga di fango, che si è voluto in quest’ultimo mese gettare addosso a Sergio, e a noi, suoi compagni.

La mostrificazione, la trasformazione di una persona in mostro, in icona del male, in rappresentazione quasi fisica della negatività, in qualcosa o qualcuno con cui non si può parlare, che non si può ascoltare, ma che va colpito e quasi esorcizzato, è un modo di privarci -tutti: da qualunque parte ciò avvenga, e chiunque ne sia soggetto od oggetto- di una possibilità di conoscenza e di intelligenza delle cose.

Mi permetto di dirlo, proprio in queste ore (e la mia non è polemica; e, se lo fosse, vorrebbe essere quella che Pasolini chiamava polemica fraterna), ad alcuni esponenti di An, che sono -come essi dicono e denunciano- linciati dalla stampa da qualche settimana; ad alcuni esponenti di Forza Italia, che sono -come essi dicono e denunciano- inquisiti e già condannati sui giornali, praticamente senza possibilità di replica; ad autorevoli firme del giornalismo, che hanno intinto (rispetto a Sergio) il loro pennino nel nero inchiostro dell’insulto, e che si ritrovano oggi nella polvere. Non è nostro costume infierire. In primo luogo i nostri avversari sanno che per Marco Pannella e i radicali, i socialisti, i garantisti, è un onore e un atto di amore civile -non solo un dovere- tendere una mano, in questi casi, e che la prima regola, quando qualcuno è accerchiato, è rompere l’accerchiamento. Lo dico a tutti, anche dopo le esperienze di queste settimane. La belva giustizialista può essere cavalcata, ma non guidata o controllata. Puoi essere tu che la cavalchi, ma è senz’ altro lei che guida, controlla e comanda. E, com’è fin troppo evidente, nessuno (nessuno, nessuno!) guadagna -né nel breve, né nel medio, né nel lungo termine- quando queste tossine vengono diffuse nella società, e quando si creano o si alimentano le condizioni per il diffondersi delle metastasi criminalizzanti.

Per questo, dico con molta chiarezza che se è sacro (lo ripeto: sacro) il dolore delle vittime, di ogni vittima di ogni atto di violenza, non è sacro, ma è il contrario di sacro, cioè civilmente blasfemo, il tentativo da parte di altri di uso politico di quel dolore, per colpire un avversario, e per negare la sua storia, il suo percorso.

Conoscete Sergio D’Elia. Lo conoscete per i suoi 15 anni di guida di Nessuno tocchi Caino, per cui tante persone autorevoli (ne cito due per tutte: il Presidente Casini e il Presidente Fini) hanno avuto occasione di esprimere pubblici elogi, di partecipare o addirittura fare proprie le campagne per i diritti umani e civili che Sergio anima e guida. Voglio citare anche il Presidente dei deputati di Forza Italia Elio Vito, che molto probabilmente partecipò in prima persona a quella giornata di commozione e di festa civile, nel 1987, in cui Sergio D’Elia annunciò ad un Congresso radicale le sue scelte, ormai avvenute ed irreversibili. Senza ricordare l’intero Gruppo senatoriale di Forza Italia, che aderì come tale a Nessuno tocchi Caino; o il Presidente del Consiglio Berlusconi, che ricevette Sergio a Palazzo Chigi proprio sulle sue campagne. E quanti sono stati (non mi riferisco certo agli onorevoli Fini e Casini, o all’onorevole Vito, o ai senatori di Forza Italia o all’ex premier Berlusconi) quelli che hanno perfino inseguito l’attività di Nessuno tocchi Caino, magari per mettersi un distintivo che potesse apparire “buono o buonista”… Ora partecipano anch’essi alla lapidazione.

Non posso credere che questa lapidazione continui. Leggiamo, leggete non solo la storia di questi 15 anni, ma la storia degli anni in carcere, in cui D’Elia e i suoi compagni di allora (con rischio certo e gravissimo) sceglievano la strada della dissociazione, misurandosi contro gli irriducibili delle BR, e contribuendo davvero (lo ripeto: a loro rischio e pericolo) alla chiusura della pagina nera del terrorismo politico.

Oggi, la presenza di D’Elia in Palamento, qui, dovrebbe essere vissuta come una vittoria della democrazia, dello Stato, della nonviolenza, del principio costituzionale della pena come strumento di rieducazione, e di ripartenza umana e civile per ciascuno. Mi auguro, sono certo, che questa Camera non vorrà né colpire D’Elia, né -attraverso di lui- le speranze di tanti (e penso naturalmente anche al collega Farina di Rifondazione), la cui partecipazione alla vita civile e politica del paese non è solo il loro, ma il nostro e vostro onore; non è solo la loro, ma la nostra e vostra speranza. Spero, anzi sono certo che nessuno voglia trasformare questo luogo (contro ogni principio di diritto, e contro la volontà popolare) in una sorta di “tribunale delle coscienze”, che stabilisca (in base ai criteri dell’on.Leone o dell’on.Vito o dell’on. Giovanardi) chi possa entrare in questa Camera e chi no, chi gli elettori possano scegliere e chi no, e chi questa Camera possa destinare ad alcuni incarichi elettivi e chi no, con una mozione perfino irricevibile, a mio avviso. Sarebbe una pagina scura, e non certo per il collega D’Elia o il collega Farina, ma per noi, per questa Camera.

Grazie, signor Presidente.”

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