“Tutti insieme!”

A condividere l’imbarazzo per i festeggiamenti post-Coppa siamo stati capaci tutti. Stefano Bartezzaghi ci fa anche delle riflessioni intelligenti, su Repubblica di oggi:

“Ma se non fosse solo una questione di stile? E se anzi la questione di stile, come quasi tutte, fosse una questione di sostanza? I festeggiamenti per la vittoria al Campionato del mondo di calcio hanno avuto qualcosa di francamente abnorme: i gesti forsennati, i denudamenti, i salti, le urla, le mascherate con cappellacci e bandiere, le sceneggiate da salone di barbiere – incominciati già in campo – si sono allargati e amplificati in una due giorni rauca e scomposta, che ha investito le città italiane, ha paralizzato Roma, ha invaso il palazzo del Governo italiano e il prime time televisivo. Ne è rimasto coinvolto un personaggio misurato come il Presidente della Repubblica, che si è sottoposto a una cordiale innaffiata negli spogliatoi e a un’intervista rilasciata sullo sfondo invero poco istituzionale di un cartellone con gli sponsor.

Bisogna vedere se l’abnorme è ancora davvero sorprendente. Chi ricorda la penultima vittoria, quella spagnola dell’ ’82, trova differenze tali da chiedersi se sia possibile che tante cose siano successe nel frattempo. Allora Giovanni Spadolini e Sandro Pertini si meritarono articoli scritti a occhi sgranati per semplici azioni come sventolare una bandiera dal balcone di Palazzo Chigi, o gesticolare in tribuna muovendo l’aria come quando si dice: “questa sì che è classe”. L’esultanza in campo di Marco Tardelli spiccava come un acuto in una litania: un evento di eccezione in un quadro che oggi parrebbe sostanzialmente grigio e allora era già il culmine sgargiante dell’entusiasmo. In quanto ai tifosi di base – una base che proprio allora si allargava all’intera audience televisiva, compresa la parte femminile prima disinteressata al calcio – a quel tempo non conoscevano i modi di festeggiare: era tutto da inventare. We are the champions era stato scritta da cinque anni, ma era nota solo ai fan dei Queens. I caroselli automobilistici erano rarità, nelle città che non vincevano mai i campionati nazionali. Non era ancora invalsa l’idea di truccarsi, dipingere tricolori sulle facce o sul selciato delle strade, pavesare automobili. Allo stadio non si faceva la ola. Le autorità pubbliche non professavano il loro tifo, se non in forma blanda.

Oggi ci troviamo con un intero campionario di figure retoriche dell’esultanza, gesti collettivi ripetuti in schemi fissi, pressoché tutti nel registro dello sguaiato. Gli eroi vincitori fanno quello che fanno i loro ammiratori, e i loro intervistatori invasati da un identico demone: cantano rauchi, ululano, “fanno i matti”, dicono volgarità nelle interviste, ammiccano. Campioni: vincitori ma anche esemplari tipici.

Giornali e tv provano a dare un’idea di quel che succede, ma i loro mezzi e le loro categorie non sembrano essere sufficienti. L’Auditel non può registrare attendibilmente audience e share, parametri che vanno in briciole di fronte ai megaschermi. Le inquadrature mostrano folle strabocchevoli ma non danno il senso del coinvolgimento. I giornalisti allineano serie di vocali con segni di accento per suggerire al lettore un’impossibile trascrizione degli urli e dei cori. Nemmeno le cifre – sempre incerte – dei partecipanti riescono a comunicare qualcosa di significativo, poiché il fenomeno è più qualitativo che quantitativo. Non si tratta di decidere quanti granelli di sabbia formino un mucchio, cioè quanti individui formino una folla. E’ che la massa agisce come un tutt’uno, diventa un metaindividuo fornito – come dalla classica analisi di Canetti – di organi di senso propri.

L’intrinseca volgarità potrebbe rendere opaco, illeggibile il senso di questi raduni rituali. Non occorre avere mal di testa per essere infastiditi dai noiosi clacson tutta la notte sotto la finestra, così come non occorre lord Brummell per deprecare l’applauso al funerale. Sono fenomeni paragonabili: sono le figure retoriche dell’antichissima – ma quanto rinnovata – ansia di partecipazione. Le sue occasioni di manifestarsi sono chiamate “eventi”, sia che si siano prodotte in via naturale o spontanea (la partecipazione a un funerale, la mania collettiva per un caso di cronaca, il successo di un libro o di un film poco pubblicizzati), sia che siano stati organizzati scrupolosamente e sostanzialmente previsti nelle loro dimensioni – come in un raduno di musica pop o rock, o in un Anno Santo. L’abilità degli organizzatori sta nell’avvertire le potenzialità dell’evento, e inquadrarlo quando sta per realizzarsi davvero. Ovvero, regolare l’abnorme.

L’abnorme è il linguaggio standard dei partecipanti all’evento. Per quanto sensate possano essere state le parole di Romano Prodi nel cortile di Palazzo Chigi, di quella serata si ricorderanno solo i cori, le stonature sull’Inno, il nuovo rito del “po po po”. E il madrigale “olelè, olalà, faccela vedè, faccela toccà” – fuori dall’increscioso senso letterale con i suoi preoccupanti presupposti porno e maschilisti, poco leniti dal vernacolo goliardico – esprime tuttavia una volontà di uscire dalla rappresentazione e arrivare a toccare una cosa che sia, di fatto, la Cosa (sperando che davvero si trattasse, nell’evenienza, della Coppa del Mondo). E’ una volontà contraddittoria perché si annulla da sé: esprimendola non si fa altro che restare nella rappresentazione medesima, o di entrarvi con un gesto abnorme che potrà iscriversi nella memoria, come tocco di colore.

Quando oramai i clacson erano pochissimi e della festa restavano le bandiere alle finestre, i cocci di bottiglia sui marciapiedi e la miscela olfattiva prodotta dalla birra e dalle sue conseguenze, alle nove di lunedì mattina per una via di Milano è passato un disgraziato. Era giovane, aveva paramenti azzurri e tricolori, e con sguardo basso e torvo cantava a squarciagola, sull’aria di un jingle della Coca Cola: “Forza Italia alè alè, Forza Italia alè”. Il dettaglio più patetico è che alla fine di ogni strofa, nel silenzio della via, aggiungeva “tutti insieme!”. E poi ricominciava, ogni volta, finché ha girato l’angolo. L’abnorme non può essere separato dal corpo collettivo in cui si inscrive, e nel caso lo reclama. Una mitologia delle figure in cui si articola – dall’esibizionismo fisico fino ai nuovi usi e significati dell’Inno di Mameli – deve essere ancora scritto”

Repubblica

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