La discussione su Borat, il film, è in realtà assai più semplice di come la si dipinge. Leggendo le cose che se ne scrivono, uno che non l’abbia visto è portato a equivocare. Almeno, questo è quello che è successo a me: l’ho visto, e ho trovato tutt’altro rispetto a quello che avevo capito.
Borat è un falso documentario in cui il comico Sacha Baron Cohen impersona un giornalista del Kazakhstan che va in America per girare appunto un documentario e imparare come funziona quel paese. Il documentario è falso perché l’intenzione e il personaggio sono posticci, recitati: ma le persone coinvolte quasi sempre non lo sanno, e dunque si prestano candidamente. La particolarità del personaggio Borat è di essere a un tempo volgare, ignorante, razzista e osceno, e insieme un sempliciotto che ispira tenerezza. E questo scatena l’effetto esilarante, che è clamoroso: si ride come dei matti delle imbarazzanti situazioni in cui mette i suoi interlocutori. Chi ha polemizzato con i messaggi razzisti di Borat, è più sciocco di lui se non capisce che il personaggio non può essere modello per nessuno, men che mai per gli ignoranti inclini al razzismo. In realtà, l’unico dibattito pratico su Borat è questo: lo si può doppiare in italiano? Naturalmente sì, ed è stato già fatto. Ma non senza perdere almeno metà della sua comicità, basata sul confronto con l’America e anche con la sua lingua.
Borat quindi in Italia lo vedremo a primavera. I distributori di qui, con l’acquolina in bocca per il sensazionale successo americano, sperano di portare a casa sia il pubblico in grado di apprezzare la raffinatezza di alcune parodie sia quello che riderà a crepapelle delle scene più disdicevoli e volgari. E hanno detto di voler costruire un’attesa più preparata. Intanto, adesso il film è un fenomeno mondiale, e a primavera sarà una cosa vecchia e amputata dal doppiaggio.
Vanity fair
On Borat
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