“Re Cecconi, quell’ultima follia del ragazzo che giocava con la vita”

Trent’anni fa la tragedia del campione, ucciso per uno scherzo

di CORRADO SANNUCCI

Come non fosse già abbastanza assurdo che la pazza Lazio del ’74 avesse vinto uno scudetto, arrivò tre anni dopo la morte di Luciano Re Cecconi, inchiodato al suo destino da una frase insensata, “fermi tutti, questa è una rapina”, con le mani in tasca dove non c’era nessuna arma. Quella sera del 18 gennaio di trent’anni fa, cadendo a terra, Re Cecconi segnava anche la sconfitta di tanti scherzi, rischi, sfide, tresche con il pericolo: un modo di vivere immerso nei tempi, e allora erano anche tempi di violenza ed incoscienza, con gli spari che avrebbero cominciato a risuonare per tutte le strade del ’77. Ma la sua morte era anche la fine del gioco di equilibrio tra la disciplina dell’atleta e l’anarchia del carattere, finché era stato quest’ultimo a prevalere e a imporre la sua legge.

La pallottola del gioielliere Tabocchini fece cadere Re Cecconi dal crinale lungo il quale spavaldamente, incoscientemente, aveva camminato, non da solo, con molti compagni, con molti rivali all’interno di quella Lazio. Questa la schizofrenia che la sua morte non ha risolto, o meglio, ha fissato nell’aspetto più doloroso, tra un giocatore che correva con il nuovo, nel rinnovamento atletico e tecnico generale dei primi anni ’70, e il ragazzo che si era fatto trascinare a esibizioni di coraggio e sfrontatezza, il brevetto del paracadutismo, l’adesione a ideologie di destra, il corteggiare le pistole (il dottor Ziaco svenne dopo un bumbum nella sua stanza, credeva di essere stato colpito). Un cocktail incomprensibile oggi, quando essere un calciatore è già qualcosa che riempie troppo la vita, ma che poteva non bastare trent’anni fa, nel calcio ancora casareccio di allora – e figurarsi quello della Roma laziale – quando un giocatore della nazionale poteva entrare in una gioielleria senza neanche essere riconosciuto (a Gattuso oggi regalerebbero un diamante).

Il calcio non gli era mai pesato, non ne aveva mai sentito la fatica, lui che ne aveva scelto il versante più muscolare, polmonare, rinunciando anche ai vezzi dei tocchi di piede, ammettendo che in certe circostanza il pallone era meglio darlo a Chinaglia piuttosto che provare a tirare. Aveva cominciato a correre da ragazzo, l’esordio a 19 anni in serie C con la Pro Patria, anche se nel ruolo di centravanti, e da allora non si era più fermato, a precipizio verso l’appuntamento finale e tragico della sua vita. Correva a Foggia, dove era stato portato da Tommaso Maestrelli, poi ha continuato a correre alla Lazio, dove ancora Maestrelli se l’era portato dietro, un tassello essenziale nella costruzione dell’impossibile squadra da scudetto. Tra Busto Arsizio e Foggia lo chiamano Volkswagen, perché ha l’aria tedesca, ma soprattutto Cecconetzer, anche se di Netzer non ha nulla a parte i capelli biondi, ma è l’epoca in cui si cercano nuovi modelli per un calcio tecnico ma più rapido, moderno, fisico. Re Cecconi continua a correre, perché quello era il gusto intimo del calcio, e quando partiva in coppia con Martini lì sulla sinistra c’erano dentro amicizia, complicità, intesa che andavano oltre il campo e spesso erano appese ai paracadute.

Di quella Lazio ormai si sa tutto, i clan spaccati, Maestrelli che li fa allenare separatamente, il gruppo Chinaglia che non sopporta il gruppo Martini, il tutto mentre la squadra è un miracolo di equilibrio, guidata da Wilson e Frustalupi, illuminata dal genio infantile di D’Amico, trascinata dall’energia dirompente di Chinaglia, un’energia al limite, come le vicende degli anni seguenti dimostreranno, il tutto condito da una serie infinita di sberleffi (e De Sisti sbagliò un rigore dopo che Re Cecconi andò lì a prenderlo in giro). Fu un anno da sanculotti che stravolsero il calcio italiano, fu un trionfo che appagò molti dei protagonisti, ma che non appagò tutti. Re Cecconi entrò nel giro della nazionale, ma davanti a sé aveva Romeo Benetti: fu comunque tra i convocati dei Mondiali di Germania ’74, con il numero 17, la presenza di Wilson e Chinaglia, e soprattutto le sceneggiate di quest’ultimo, non potevano certo aiutarlo. Avrebbe esordito in azzurro dopo la disfatta tedesca, il giorno in cui Fulvio Bernardini fece esordire anche Francesco Rocca, uno 0-1 in Jugoslavia. Due mesi dopo, a Genova, in uno 0-0 contro la Bulgaria, avrebbe già chiuso la sua carriera azzurra. Due anni dopo lo scudetto biancoceleste, la Lazio si salva per differenza reti con l’Ascoli: la gloria è già passata, restano solo le cattive abitudini, ci sarebbe da ricominciare una carriera. Ci prova Chinaglia, che va ai Cosmos, soppiantato da un romano di Trastevere, Bruno Giordano. Ma anche il finale è nel segno di una frattura definitiva tra abilità e fortuna, all’esordio della nuova stagione Re Cecconi segna un gol straordinario contro la Juve all’Olimpico, ma sarà l’ultimo della sua carriera, alla terza di campionato, contro il Bologna si infortuna al ginocchio sinistro, non giocherà mai più. E’ il calcio di allora, che non guariva i suoi atleti (lui come Rocca), che lo manda verso la gioielleria di Tabocchini, Re Cecconi non aveva niente da fare, non poteva allenarsi, non rimanevano che l’ansia di avere chiuso a 29 anni e gli scherzi pericolosi. Si accasciava a terra un uomo, l’angelo biondo, al quale non era stato sufficiente (e gli altri non capiranno mai perché) essere solo un grande calciatore.

Repubblica

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