Responsabilità

Sono stato a un dibattito sul libro di Massimo Gamba dedicato alla storia di Vermicino, che è un libro avvincente e frustrante e doloroso insieme: perché lo è quella storia. Si è parlato ancora del ruolo della televisione allora e di quello che nacque dopo quella lunga diretta: della tv del dolore, del sensazionalismo, della strumentalizzazione della tragedia.

Ci sono diversi motivi per cui quella diretta è invece da assolvere e da distinguere dalle morbose indiscrezioni televisive di oggi. Il primo è che fu una diretta, non un talk-show. Cruda e formalmente poverissima. Il secondo è che fu la diretta di una speranza, e tenne milioni di persone attaccate alla tv nell’attesa che potesse succedere una cosa bella. Il terzo è che le strumentalizzazioni e il cinismo dei media nacquero molto prima di Vermicino: si pensi solo al primo “Prima pagina”, oltre che a “L’asso nella manica”. Il quarto è che quella diretta fu drammatica, una successione di pugni nello stomaco, e fece star male quelli che la seguirono: ma se l’informazione dovesse tutelare il pubblico dalle sofferenze, non si farebbero più i giornali e i telegiornali. Un conto è far stare peggio gli spettatori, un conto è peggiorarli.

Provate a fare un esperimento: immaginate che Vermicino sia successa tre anni fa. Stasera in tv ci sarebbero probabilmente un programma in cui ex-modelle e psicanalisti discutono davanti a una lavagna della posizione del corpo di Alfredino dentro al pozzo, e un altro in cui pretesi autorevoli osservatori spiegano che a buttare Alfredino nel pozzo fu sua madre, e che Pertini quando arrivò a Vermicino lo sapeva.

Sì, forse nacque qualcosa dopo Vermicino, in tv. Qualcuno capì che intorno a un dramma si possono fare grandi ascolti: ma di aver portato questa analisi alle conseguenze televisive di oggi sono responsabili quelli che fanno la tv oggi, non quelli che la fecero allora.

Vanity Fair

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