Le rose che non colsi (pezzo molto lungo sulle stato delle primarie del Partito Democratico)

C’è un notevole imbarazzo, tra i commentatori e i giornalisti, a dire che le primarie del Partito Democratico stanno prendendo una china assai deludente. Ecco, io stesso ho detto “assai deludente”, che è un’espressione piuttosto indulgente rispetto a ciò che davvero penso. L’imbarazzo deriva dal fatto che in pochi giorni un evento inatteso ha al momento capovolto le sorti delle primarie, che prima di quell’evento avevano ricevuto unanimi celebrazioni che le definivano un evento storico e ammirevole nel corso della nostra democrazia e della nostra politica. In mezzo a quel clima di euforia – “una vera competizione! Finalmente ci si affronta e si offre una scelta! Lo spettacolo della politica viva!” – è piombata la candidatura di Veltroni, sollecitata a catena un po’ da tutti, e divenuta improvvisamente realtà nel giro di poche ore. E apprezzata altrettanto unanimemente da tutti gli stessi commentatori, con ottime e condivise ragioni; ragioni che sarebbe ridicolo ripetere ancora a fronte di tutto quel che ne è stato scritto nei giorni scorsi.

Ricapitolando, al nascente Partito Democratico capitano in successione due buone cose: un meccanismo di definizione democratico e selettivo, e un leader apprezzato e con chances di vincere una competizione elettorale più uniche che rare. A esser di sinistra (ma anche di destra), ci sarebbe da stare allegri, e infatti stanno tutti cercando di stare allegri. Solo alcuni – più esplicitamente Panebianco sul Corriere di l’altroieri – si stanno accorgendo che le due buone cose sono in contraddizione tra loro. E molti di quelli che se ne sono accorti fanno fatica a ritornare sui passi dell’entusiasmo dei giorni passati.

Per capire come queste primarie rischino di essere appesantite da un concorso di goffaggini, bisogna recuperarne il senso e la storia. Ma prima ancora bisogna dire – lo faccio, lo faccio – che c’è già comunque qualcosa di sensazionale, storico, e da levarsi il cappello, nel percorso inedito che ha portato fino a questo punto del cammino del Partito Democratico. Su questo siamo tutti d’accordo, e complimenti imperituri a chi ci ha lavorato. No ironia.

Bene, e adesso andiamo con lo sforzo di memoria: queste primarie, ricorderete, sono nate con l’obiettivo di eleggere quell’apparecchio roboantemente denominato Assemblea Costituente (sempre tutto maiuscolo, per tic Repubblicano). Ovvero un’istituzione che avrebbe stabilito regole, principi e criteri di costruzione e vita del Partito Democratico. L’idea, ottima, aveva allora un solo limite, assai poco discusso: la pretesa che tale assemblea fosse composta da 2375 persone. Duemilatrecentosettantacinque. Strano che nessuno ne abbia sottolineato l’assurdità, no? Riuscite a immaginare che un simile consesso possa essere in grado di deliberare su qualcosa? Il parlamento della Repubblica Popolare Cinese ne ha quasi tremila, è vero, ma in tempi di discussione sulle istituzioni troppo popolose, la scelta suona davvero ridicola. Finirà che dovranno eleggere un altro comitato più ristretto, si immagina. La scelta si può pure spiegare col fatto che si è deciso di eleggere cinque rappresentanti per ognuno dei 475 collegi del Mattarellum, ma questa è una spiegazione che non la rende meno assurda. Come hanno indicato in molti, la forma più congrua all’elezione democratica di un organismo costituente è il proporzionale puro su base nazionale, punto: e questo avrebbe consentito anche una più sensata assemblea di qualche decina di persone che rappresentasse tutti. Qualcuno vi dirà anche che l’elezione di 2375 persone serve a creare l’ossatura di un sistema di rapporti di forza e poltrone dentro il nascente PD, ma converrete che anche questa non sia una spiegazione che trova spazio nell’idea della “bella politica”.

Al di là dei numeri, restava però valida l’ottima intenzione e il suo percorso: far eleggere ai potenziali simpatizzanti le persone che avrebbero costruito la forma del partito, fossero 30 o 2375. Poi, c’è stato il primo incidente grave, e gravemente sanzionato da tutti: la nomina regia di quel Politburo dei 45 che ha subito preso schiaffi da destra e da manca, e da alcuni dei suoi stessi membri. Perché era stato creato lottizzandolo tra DS, Margherita e prodiani (quelli rimasti); perché era stato ampliato progressivamente con la stessa sfacciataggine che ha dato alla presente maggioranza di governo 105 sottosegretari; e perché l’elenco dei nomi tutto suggeriva fuorché la tanto esibita prospettiva di rinnovamento. Se ne è già detto male a sufficienza, comunque.

Il problema vero però, è nato dalla prima delibera forte del Politburo, vantata come esempio della sua capacità decisionale: quella per cui il leader del PD sarebbe uscito dalle primarie contestualmente all’elezione della costituente. Anche qui, si potrebbe discutere di una palese violazione dello spirito della costituente: se di costituente si tratta, non si può imporle a priori una norma già fatta. Non mi interessano le ragioni strategiche dei sostenitori o degli oppositori della scelta: il punto è regolamentare. Si elegge la costituente, e la costituente democraticamente e responsabilmente costruisce il partito e ogni sua norma: non si può eleggere una costituente a cui si dica “Però aspettate: i modi di elezione del segretario del partito sono già decisi, e si è anche già deciso chi sia, prima che voi vi insediaste”. Sono metodi monchi che andavano bene con lo Statuto Albertino.

Ma pazienza. Nella costruzione di un nuovo partito non c’è solo il leader, e anzi, la scelta del leader può anche essere secondaria. E soprattutto, nell’elusione di questa contraddizione ha contato un fattore emotivo contagiosissimo: tutti ci siamo appassionati all’idea che alla grandezza democratica delle primarie si associasse anche una spettacolare competizione politica individuale, con almeno una decina di soggetti interessanti in campo. Per qualche giorno, l’assopito mondo dei commentatori politici ha sniffato eccitato questa prospettiva, pregustando un settembre di inedita passione per la politica italiana. Per qualche giorno, però.

Perché poi è arrivata la candidatura Veltroni.

La candidatura Veltroni è stata un secondo botto di eccitazione: a scoppio ritardatissimo, senz’altro, che la si aspettava due anni fa, e ormai quella frittata è stata fatta, con la complice e timida responsabilità di Veltroni stesso e di chi non insistette allora quanto oggi perché fosse lui a guidare il centrosinistra alle scorse elezioni. Quello che resterà di questa legislatura – nel bene o nel male – sta tutto sulle spalle di quella timidezza. Ma meglio tardi che mai. E così, altra sniffata e altri giorni di eccitazione: un leader nuovo, uno che sa far emozionare e sa restituire motivazioni e speranze. Giorni così sopra le righe – sale verdi, sale gialle – da farci perdere di vista il fatto che intanto si stessero spegnendo le primarie.

Perché la nomina del leader, che doveva essere una funzione accessoria dell’elezione della costituente, è divenuta la funzione principale che subordina ogni altra scelta. E quindi liste e competizione si faranno su quella, e non su valutazioni e confronti più ampi e interessanti. E le liste e le persone che avrebbero concorso ai posti nell’assemblea si trovano ora costrette a una scelta prioritaria e indesiderata: sostenere o no Veltroni. O addirittura rinunciare, di fronte al travolgente messaggio plebiscitario assunto dall’evento.

Il ribaltato approccio è spiegato molto facilmente: fino a che i posti in palio erano 2375 ce n’era per tutti, e piccoli o grandi trionfi sarebbero stati garantiti a tutti. Nessuno dei nomi più pesanti correva il rischio di perdere. Adesso che tutta l’attenzione si è spostata sull’attribuzione di un posto solo, tutti tendono a estraniarsi dalla lotta: o saltano sul carro del vincitore, o fingono di esserci sempre stati. Non vogliono perdere e fingono di sottrarsi per generosa solidarietà, malgrado posizioni e opinioni assai distanti da quelle di Veltroni, e malgrado la loro eventuale sconfitta non possa affatto nuocere alle fortune del PD né a quelle di Veltroni: solo al loro amor proprio. E lo stesso Veltroni, poco saggiamente, pare preoccupato di vedere anche un solo voto in meno minacciare il suo trionfo. Certo, ci sono ancora tre mesi perché succedano delle altre cose. Vedremo gli sviluppi, e complimenti fin d’ora a chi poi andasse contro la corrente di questo andamento. Che però ora sembra incanalata in argini di cemento.

C’è poi un altro risultato di questo percorso: quello per cui la personalizzazione delle primarie le sta trasformando nello stesso fenomeno plebiscitario dell’altra volta. Le persone andranno a votare per votare Veltroni, come allora andarono a votare per votare Prodi. Per dare dimostrazione di compattezza e forza. E allora, come non condividere i timori di liste concorrenti che vorrebbero soprattutto portare persone e idee alle primarie, e per coerenza anche proporre un leader diverso? Chi li voterà, con l’aria che tira, quel candidato leader diverso e quindi quella lista? E viceversa, come criticare quelle compagini che pur apprezzando la scelta di Veltroni o trovandola accessoria, vogliano proporre alla Costituente approcci e programmi propri, e si troveranno però a partecipare allo svilimento delle primarie diventando una delle molte “liste Veltroni”, sgridate da Panebianco?

La verità è che sono stati fatti diversi pasticci, e le cose buone si sono rese pasticcio l’una con l’altra: a essere coraggiosi, bisognerebbe ritirare l’intimazione antidemocratica – antidemocratica malgrado l’apparenza – di votare il leader alle primarie, e farlo invece scegliere alla costituente dei 2375. Almeno questi 2375 serviranno a qualcosa. E la corsa tra Veltroni e i suoi eventuali concorrenti potrà avvenire allora, con risultati altrettanto limpidi e garantiti. E si saranno liberate queste storiche, rivoluzionarie e memorabili primarie (no ironia) dal fardello che può azzopparle in cambio di una sola piccola benvenuta novità: Veltroni, il bicchiere mezzo pieno.

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