Cose che odio sugli aerei (e negli aeroporti)

È vero che certi aeroporti sono i luoghi più accoglienti e confortevoli dei nostri tempi, se hai solo bagaglio a mano. Ed è verissimo che dovunque si vada, il fascino del volo, del viaggio, della partenza, sono imbattibili, e la grande letteratura lo sa da quando al posto degli aeroporti c’erano solo i porti e le stazioni o i sentieri e le sveglie all’alba. Ma siamo ormai volatili, finestrino o corridoio.

E però gli aeroporti e gli aerei – il mondo parallelo della modernità e il simbolo di tutto ciò che il resto del mondo non è quanto a efficienza e spensieratezza (non devi far niente, solo seguire le indicazioni e rimbalzare stordito tra un’edicola, un oyster bar e un duty free: accendere l’iPod appena imbarcato, e tenere in ordine i giornali nella tasca davanti a voi) – dicevo, gli aereoporti e gli aerei riescono a irritarti supremamente con i loro fastidi, come accade con quelli che ti telefonano durante la pennichella.

Io odio quelli che mi reclinano il sedile addosso, per esempio.

E odio quelli che applaudono dopo l’atterraggio (lo so cosa pensate: ma li ho visti, esistono ancora).

E odio quelli che all’aeroporto ti si gettano tra le ruote del trolley per venderti delle carte di credito.

E odio i labirinti per gestire le file quando non ci sono le file e devi lo stesso camminare un chilometro dietro al niente (o scavalcare, sentendoti però un pericoloso sovversivo).

E odio le compagnie che non hanno il web check-in: una volta che hai cominciato a scampare il check-in, vorresti non passarci mai più.

E odio gli steward e le hostess (hostesses?) italiani che diramano messaggi a bordo in un inglese che nemmeno Di Pietro. Che le hostess non debbano più essere solo delle bellezze proverbiali è una buona conquista di civiltà, ma la conoscenza delle lingue magari era meglio continuare a richiederla, per le assunzioni.

E odio che nel 2007 ancora annuncino il divieto d’uso per i “computer collegati a lettori di compact disc”: tanto vale vietare anche gli speroni e il tabacco da fiuto (mentre il termine “cappelliere” è così imbattibilmente vezzoso).

E odio l’impresentabile catalogo di foulard, gemelli e profumi che vogliono venderti in certi voli internazionali.

E odio le prese audio nei sedili diverse da quelle che usiamo noi umani quando siamo a terra.

E vi aspetterestre che odiassi la consegna dei bagagli e il loro smarrimento: ma l’attesa che la valigia sbuchi sul nastro ha un suo brivido d’azzardo, e l’indipendenza improvvisa e l’eccitazione dello shopping a spese della compagnia – con le compagnie disponibili – a volte compensano della seccatura.

Però odio, essendone vittima, l’ineleganza dei trolleys, che ci fanno sembrare tutti arzille vecchiette in viaggio col barboncino al guinzaglio. Mi chiedo quando inventeranno dei congegni autogonfianti che ci faranno portare le valigie come palloncini.

E odio quelli che fanno a gara a slacciarsi le cinture e alzarsi appena atterrati, per dimostrare che loro sono gente di mondo: tutto un clàck-clàck che poi li terrà pigiati nel corridoio per minuti e minuti in cui si calpesteranno le valigie l’un l’altro.

E odio la bruttezza delle riviste di bordo (quella dell’aeroporto di Copenhagen è bellissima, invece).

E odio le pietanze gelate in volo, e anche quelle non gelate, e mangiare in equilibrio precario, e che ti lascino lì per ore con tutta la roba smangiucchiata e i cartocci e i bicchieri vuoti sul tavolino, impedito a qualsiasi movimento o lettura. Dovrebbero vendere dei pasti confezionati e progettati alla bisogna in aeroporto, da portare in aereo, autodistruggenti.

E odio, mortalmente odio, il bus di collegamento col terminale. Piuttosto l’alienante “finger”, ma non sono fantastici quegli aeroporti in cui puoi ancora andartene con i tuoi piedi sul piazzale di cemento battuto dal vento?

Tutto il resto, sugli aerei, è meraviglioso.

Internazionale

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