Da Pietro Ingrao

“Caro direttore, in questi giorni un gruppo di ergastolani – cioè di esseri umani condannati a stare in carcere per tutta la durata della loro vita, fino alla morte – si è rivolto al Paese e alle autorità della nostra Repubblica per sollevare il problema della loro condizione esistenziale.

Chi sono? Che chiedono questi reclusi così distanti da noi? Attualmente essi vivono in una condizione che a me sembra terribile. Sono segregati in un luogo di detenzione per una decisione pubblica, che – a punizione dei loro crimini – li condanna a stare rinchiusi in una galera sino alla loro scomparsa dalla Terra. È dunque azione dello Stato che muta tragicamente tutto il loro esistere. È la prigione che dura fino allo spegnersi della vita.

Spesso, nelle vicende tempestose che ho attraversato e dinanzi alla sorte di tanti miei compagni finiti nella galera, mi sono trovato a riflettere sulla durezza rovinosa del carcere: dell’essere costretti dallo Stato a vivere rinchiusi come in una tana. E nonostante la gravità dei loro crimini, che avevano motivato quella decisione, essa mi appariva grave e devastante.

Eppure in quella reclusione agiva pur sempre la speranza che la gabbia del carcere si aprisse e il prigioniero potesse tornare nel fluttuare vasto e mutante del mondo libero. Questa speranza del detenuto – con la condanna all’ergastolo – viene stroncata alla radice.

È come il morire? No. È l’esistere, l’esperire umano nel vasto mondo che si restringe paurosamente: nel suo potere di cognizione e di relazione. Vengono mozzati l’azione e l’ascolto dell’essere umano: e il conoscere. E l’amare: non solo per il presente, ma per il domani, e per il domani ancora, fino alla morte, alla scomparsa dal vivere umano.

Perché ricorriamo a questa mutilazione così grave, così distruttiva e che incide su tutta la vita? Per fermare il crimine? Come questa motivazione mi ricorda l’illusione – così fragile – di realizzare l’innocenza con la paura… Sento che qui si apre il discorso così grave sulla punizione, e a che essa serva: se soltanto a fermare chi delinque o a riconquistarlo a una fratellanza. E s’allarga il pensiero sull’uso così largo che, ancora oggi, si fa della condanna a morte e che è come il segno della nostra incapacità o non volontà di salvare i nostri simili. Tornano tutte le aspre, complesse domande sulla funzione della pena: e se essa punti a punire, o anche a recuperare chi è caduto nel delinquere.

Quando mi unisco alla schiera che invoca una riflessione nuova sulla pena, e sul punire, scelgo la schiera della speranza. Non faccio opera di misericordia verso il peccatore. Lavoro per i miei fratelli viventi, per una dilatazione dell’umano. Tento un recupero dell’umano anche in chi ha ucciso.

È tutta l’idea della carcerazione e del punire che entra in discussione. Non rinuncio a punire. Ma mi interrogo cosa è e a che valga quella decisione del giudice: la punizione; e se essa è solo vendetta o misura di protezione, o vuole, tenta di aprire un dialogo con il reo, e non vuole mai dimenticare che anche il reo è un essere umano. E tento un recupero dell’umano anche in chi ha ucciso. E qui il discorso si dilata. Va all’uso risorto, fiorente dell’uccidere “statale”, se è vero che oggi nelle diverse plaghe del globo hanno ritrovato spazio e legittimazione gli stermini delle guerre e le abbiamo ancora oggi dinanzi ai nostri occhi dolenti e spaventati.

E mi turba molto negare anche solo un grammo di speranza all’ergastolano e tacere dinanzi al pubblico massacro di migliaia e migliaia: in Iraq e altrove”

Repubblica

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