Ogni anno, la settimana dopo Sanremo, mi viene da scrivere la stessa rubrica. Quella che dice: non-è-strano-con-quale-velocità-Sanremo-sparisca-dalle-nostre-giornate-dopo-averle-occupate-in-modo-così-inesorabile-per-giorni-e-giorni?
Ogni anno ci penso, e mi dico l’hai già scritta, e passo ad altro, contribuendo a mia volta a quel processo di oblìo accelerato.
Quest’anno però Sanremo è andato com’è andato. Per la prima volta anche i più fedeli celebratori della sua fossile ineluttabilità hanno cominciato a riflettere sulla sua insensatezza, finora coperta sotto la coltre degli ascolti. E potrebbe darsi che questo diventi quindi suo malgrado il Sanremo più memorabile degli ultimi anni, il primo che abbia un senso. Ovvero il senso di svelarsi come annuale ricovero e incubatrice della mediocrità nazionale, dell’incapacità di fare buona musica, buona televisione, buon spettacolo e buona cultura. Dell’indulgenza reciproca con un pubblico per metà bue e per metà rallegrato dal sentirsi migliore di ciò che guarda in tv.
E quindi, voglio citare un dettaglio dell’ultima serata, che ho visto solo per pochi minuti (al terzo intervento di una giuria convinta di essere in un film di Lumet, sono crollato) ma che sarebbero bastati per chiudere qualsiasi valutazione in modo definitivo. Ovvero i minuti in cui, sabato primo marzo, serata finale del festival di Sanremo, programma di punta di tutta la stagione della rete ammiraglia dell’azienda di stato, è passato un sottopancia che avvisava gli spettatori che il 29 febbraio sarebbe scaduto il termine per rinnovare l’abbonamento Rai.
Vanity Fair
Il diavolo nei dettagli
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