“The drugs don’t work” è una deprimente canzone dei Verve di dieci anni fa. Contrariamente a quanto si disse soprattutto qui da noi – equivocando sul fatto che l’inglese correttamente non distingue tra “droghe” e “medicinali” – non era tanto una canzone contro gli abusi di stupefacenti, quanto un lamento dell’autore Richard Ashcroft sull’inefficacia delle cure nei confronti del cancro di cui era morto suo padre. Due anni fa Rolling Stone la nominò “la canzone più triste di tutti i tempi”, in una classifica in cui stavano anche “Sorry seems to be the hardest word” di Elton John e “Fake plastic trees” dei Radiohead.
Adesso arriva nei cinema italiani un film canadese del 2003 – “La canzone più triste del mondo” – che racconta la storia di una gara tra chi comporrà appunto “the saddest music in the world”.
Se dovessi pensare al testo, volendo compilare una lista simile a quella di Rolling Stone, sceglierei la situazione di tragico imbarazzo in cui si trova il protagonista di “Fiori rosa, fiori di pesco” di Battisti, o la palesemente vana speranza di quello di “Ritornerai” di Bruno Lauzi.
C’è poi una tristezza meravigliosa e commovente nel modo in cui Lou Reed dice “dev’essere bello sparire, galleggiando nella nebbia, con una ragazza al braccio” nella sua bellissima “Vanishing act” (Atto finale). Aggiungerei “The gunner’s dream” dei Pink Floyd, sogno di soldato inglese alle Falklands, e “Everybody’s gotta learn something” nella versione di Beck. E Rachael Yamagata che canta “I’ll find a way to see you again” (troverò il modo di rivederti/vi) che ascoltai vedendo Diego Maradona tornare al San Paolo qualche anno fa. Poi pochi hanno toccato vette di depressione suicida come Riccardo Cocciante, in particolare in “Era già tutto previsto”: un disastro di sfighe fantozziane. Assai più seria e drammatica è la tristezza di “Venezia” di Guccini, quella di Stefania era bella. E per finire, “Christmas card from a hooker in Minneapolis” di Tom Waits, col suo finale a infelice sorpresa.
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