La notte che Pinelli

nottechepinelliSofri, quello anziano, ha scritto un libro sulla morte di Giuseppe Pinelli. Una storia di quarant’anni fa che crediamo di conoscere, come dice il risvolto:

È la vecchia storia del ferroviere anarchico che venne giù dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano. Quarant’anni fa, più o meno. Quelli che allora c’erano, ciascuno a suo modo, credono di saperla. Be’, non la sanno. In nessuno di quei modi. Figurarsi quelli che non c’erano. Figurarsi una ragazza di vent’anni, di quelle che fanno le domande. Anch’io credevo di saperla. Poi ho ricominciato daccapo.

Malgrado quel che leggerete negli articoli dei prossimi giorni (“La notte che Pinelli” uscirà tra una settimana: e allora chi vorrà potrà parlarne qui), non è un libro che parla dell’autore: ma si sa cosa eccita le redazioni (le assunzioni di responsabilità dell’autore su ciò che scrisse allora si sono ripetute più e più volte negli ultimi vent’anni, ma faranno notizia di nuovo). Parla di Pinelli, e l’autore fa da narratore della sua storia. Poi un pezzo della vita dell’autore si è attorcigliata a quella storia, e ci sono anche delle sue riflessioni: a un certo punto. Secondo me il libro è molto bello – in tutte e due le sue parti – ma si suppone che il mio non sia un giudizio obiettivo. Quindi un’idea è il caso che l’abbiate, e questa è una parte del primo capitolo. “Se davvero avete voglia di sentire questa storia”, come diceva quello.

 

Il 12 dicembre fu un giorno – una sera – così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c’era stato un prima, e che cominciava un dopo. Mi servo di questi modi di dire usati, ragazza, benché sappia che quello sbigottimento non si può davvero comunicare. Bisognava esserci, dicono sospirando certi vecchi, certe vecchie scuotendo la testa. E dicono: Tu non puoi capire. Era un altro mondo, del resto. Quarant’anni fa – quasi il doppio del tempo che separava il 12 dicembre da una guerra mondiale! Non serve a granché dirti che la televisione aveva due canali, ed era in bianco e nero: lo sarebbe stata ancora fino al 1977. Servirebbe di più raccontarti quanto, e soprattutto come si fumava, nel dicembre del 1969.

C’è una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell’Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C’è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli. Sono presenti altri quattro sottufficiali di polizia, e un tenente dei carabinieri. Fumano tutti. Sono lì da ore, è quasi mezzanotte. Al processo, il giudice chiederà a uno di loro, il verbalizzante, brigadiere Caracuta: «Avete fumato tutti durante l’interrogatorio?». Caracuta: «Sì, lei capisce eccellenza… fumavamo tutti come turchi». Perciò, nonostante sia una notte di mezzo dicembre – il 15, proprio – la finestra è socchiusa, per cambiare l’aria. C’è anche un’ottava persona, il carabiniere Sarti, quasi sulla soglia. Sarti: «Uscii dalla stanza per andare a prendere le sigarette che avevo lasciate dentro l’impermeabile… rientrai subito, accesi la sigaretta e poi…». Poi vede una persona, uno dei fumatori, buttarsi nel vuoto. Sarti: «Mi ero distratto un attimo, stavo appunto fumando la sigaretta, e ad un certo punto ho sentito come qualcosa sbattere, un colpo secco. Allora mi girai di scatto e vidi proprio una persona buttarsi nel vuoto…». Era Pinelli, il ferroviere. Appena prima un altro dei presenti, il brigadiere di P.S. Mainardi, gli aveva dato da fumare. L’ultima sigaretta. Mainardi: «Io sono rimasto là, accesi una sigaretta; nella circostanza Pinelli mi chiese ‘mi dia una sigaretta’ e io gliel’ho accesa». Pinelli fuma, dice qualcuno, e va alla finestra per scuotere la cenere. Un cronista dell’«Unità», Aldo Palumbo, sta uscendo dalla Sala stampa, si ferma un momento sui gradini che scendono in cortile ad accendersi una sigaretta, sente il rumore di qualcosa che sbatte, poi dei tonfi. Di sotto, nel cortile della Questura, un agente semplice, la guardia Manchia, sostiene di vedere un uomo – un’ombra – che cade giù dal quarto piano, e più distin- tamente di lui – è mezzanotte, il cortile è buio – la brace di una sigaretta che lo accompagna per qualche metro, prima di spegnersi. Secondo altri fermati, Pinelli aveva trascorso quei tre giorni facendo parole crociate, leggiucchiando quello che trovava – un libro giallo, un opuscolo su automobili – e soprattutto fumando. «Mi colpì il fatto che il pavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette». Più tardi, quella notte, morto Pinelli, il questore Marcello Guida riceve i giornalisti. C’è anche Camilla Cederna. «La signora Cederna? Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, anzi le dirò che sono un suo ammiratore… Vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi».

Si fumava come matti, tutti, guardie e rivoluzionari, anarchici e monarchici. Nessuno avrebbe immaginato senza ridere un pacchetto di sigarette con su la scritta «Il fumo uccide». Gli anni di piombo erano di là da venire. Questi erano anni di fumo.

La moglie del ferroviere si chiamava Licia. Avevano due bambine. Quel giorno avevano già preparato i regali per Natale. Le bambine portarono poi al cimitero il regalo per il loro padre e lo posarono sulla tomba: un pacchetto di sigarette.

Non so che cos’altro dirti, ragazza, per darti un’idea del trauma di quei tre giorni. Prima la strage, orrenda, inaudita. Poi l’anarchico, «suicida» confesso, dal quarto piano della Questura. Poi – subito dopo, a soppiantare e insieme completare la notizia – la cattura della belva Valpreda. Una voragine si era spalancata, e già si richiudeva.

 

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