Communication lets me down

Il libro di Jaron Lanier “You are not gadget“, ha un’ottima partenza con alcuni concetti interessanti, fondati e ben spiegati. Sono quelli di cui si è parlato in un piccolo dibattito italiano, anche se in maniera un po’ approssimativa e schematizzata. Poi Lanier insegue corollari della sua argomentazione che sono più confusi, meno argomentati e più contraddittori dal punto di vista logico. Spesso le sue ragioni sono sostenute molto fragilmente, ma ogni tanto ci sono un’intuizione, un’associazione, una lettura di quello che è diventata internet per i nostri mondi, che valgono la pena.
I concetti per me interessanti sono fondamentalmente due, strettamente intrecciati tra loro. Non sono né “l’odio e la violenza che prosperano in rete”, né “il monopolio di Google”, come hanno preteso di sintetizzare alcuni lettori sbrigativi: un libro su queste due considerazioni elementari e brusche non avrebbe alcun interesse, perché entrambi i temi sono stati affrontati con maggior equilibrio e capacità di analisi in molti altri contesti in questi anni. È un libro contro l’idea che ci sia un’intelligenza e un sapere diffuso, nelle tecnologie, alienabile dalle individualità e dalle creatività umane.

I want to say: You have to be somebody before you can share yourself

Non è un tema nuovo, ma Lanier mette bene in ordine gli argomenti di un tentativo finora sconfitto di contestare le celebrazioni di questi anni del potere delle “conversazioni” in quanto tali, e di restituire priorità al contenuto di quelle “conversazioni”. Semplificando, a essere messo in discussione è l’intero fenomeno di esaltazione del cosiddetto “web 2.0”, che ha finora insistito su due aspetti (collegati tra loro) della trasformazione degli utenti dei contenuti online in utenti e produttori dei contenuti online. Uno di questi aspetti è il grande valore democratico e libertario dell’accesso di grandi numeri di persone alla comunicazione di sé e dei propri pensieri; il secondo è l’arricchimento qualitativo dei contenuti nel momento in cui essi crescono quantitativamente. Se tutti possiamo dire la nostra, questo è bene: e migliora anche il valore delle cose che vengono dette. Lanier – non è il primo – contesta la seconda delle due conclusioni. E siccome è una contestazione che mi convince da tempo, scusatemi se confondo un po’ il mio modo di spiegarla con il suo.

Communication is now often experienced as a superhuman phenomenon that towers above individuals. A new generation has come of age with a reduced expectation of what a person can be, and of who each person might become.

L’idea che la libertà non sia un valore assoluto – più ce n’è e meglio è – è vecchia e consolidata: c’è quel discorso della mia che finisce dove comincia la tua, eccetera. C’è, ovvero, una condivisione del fatto che i modi in cui si esprime la libertà – i suoi “contenuti” – contino: abbiamo regolato assieme quali sono le libertà che è giusto permetterci e quali no. Ma il precedente più familiare di questo dibattito è quello che riguarda da sempre la democrazia, il suo valore e la sua efficacia.
La democrazia è un concetto in cui crediamo fermamente. Crediamo sia giusta. Crediamo sia giusto che ognuno abbia accesso e modo di contribuire alle scelte che regolano la sua comunità. Ma abbiamo convenuto da tempo che la democrazia funziona solo se i cittadini sono informati. Se le scelte sono affidate a tutti, questo è bene in assoluto. Ma non significa che le scelte saranno buone. Che i cittadini possano decidere non cambia di per sé la loro maggiore o minore capacità di decidere saggiamente. “Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra”: è una frase di Goffredo Parise. Di solito, i politologi citano come esempio scolastico perfetto di questa considerazione quello dell’Algeria, che elesse con elezioni democratiche un governo di fanatici islamisti intenzionati a modificare la costituzione laica. E molta parte del mondo democratico arrivò a plaudire a un colpo di stato militare che annullò il risultato di quelle elezioni democratiche.
Ma ci sono esempi meno vistosi e meno cruenti (e più prossimi) di cosa avviene quando un sistema indiscutibile come quello democratico non si accompagna alla “pedagogia” di Parise, ovvero all’offerta di informazioni e cultura necessarie perché tutti possano fare scelte utili ed efficaci per se stessi e per gli altri. La questione dell'”opinione informata”. La stessa idea della democrazia rappresentativa viene in parte da qui: dall’idea che una democrazia diretta applicata su ogni questione non determini una migliore qualità delle scelte, e spesso nemmeno del dibattito.
Quello che è successo con internet non è molto diverso. Tutti siamo d’accordo sul fatto che la libertà di espressione offerta dalla rete sia un valore di per sé. Quello su cui ci dividiamo è la tesi per cui la qualità complessiva di ciò che diciamo migliori grazie a questa libertà. Lanier (e io tendo a dargli ragione) sostiene che non basta, che non si devono confondere ricchezza e varietà, ricchezza e qualità. E sostiene (su questo ho opinioni meno sicure) che addirittura la straordinaria offerta di diverse possibilità di espressione limiti la qualità dell’espressione. Che riduca gli spazi di elaborazione e comprensione del mondo e delle sue cose, che riduca la qualità delle cose che diciamo, e che privata di un intenso lavoro di informazione e approfondimento rischi di avere l’effetto della democrazia senza informazione. La qualità diventa minoritaria e prevale il conformismo verso il basso. Lanier aggiunge un altro elemento che lavorerebbe in questo senso, peculiare della crescita di internet, e questo è il secondo punto efficace del suo libro.

Once upon a time, not too long ago, plenty of computer scientist thought the idea of the file was not so great.

Lanier usa la storia della creazione del file come esempio di scelte che non sono necessariamente migliori, inevitabili o uniche, ma che una volta fatte determinano il corso successivo in modo così pesante da impedire ogni deviazione futura da quel corso. Il file è oggi un elemento centrale del nostro sistema di gestione delle informazioni, dei contenuti, persino della filosofia della nostra vita. È una tirannica unità di misura del funzionamento del software e di quello che facciamo in mille ambiti diversi. Ma questa struttura “partizionata” dell’espressione umana non era l’unica pensabile, quando fu pensata. Si lavorava su ipotesi di elementi unici in cui includere funzioni e dati diversi, o su network di elementi. Oggi, però, ripensare il sistema laddove se ne individuassero di più efficaci è divenuto impossibile. E questo vale per moltissime tecnologie canonizzate e radicate dopo che la loro scelta sia stata dettata da criteri culturali, produttivi o di efficacia, magari legati a un contesto, a un tempo, o a una necessità particolare. Le cose prendono una forma, e poi quella forma orienta tutte le declinazioni successive e limita le possibilità di rivoluzione. Questo vale in particolar modo per i software, spiega Lanier: e la possibilità dei software di affrontare ogni minimo dettaglio relativo alla loro funzione diminuisce a sua volta gli spazi di indipendenza nel loro uso. Dopo un po’ non c’è più niente che possiamo fare “in un altro modo”.

Adesso vi faccio due esempi che nella mia testa hanno reso chiaro questo concetto. Uno è il blog che state leggendo. È il mio blog; lo scrivo io: è pieno di cose che parlano di me e che ho pensato io. Quel che è e quel che comunica lo decido io, tra infinite possibilità. Ma siamo sicuri? Quanto di ciò che questo blog comunica si deve a me e quanto a WordPress, la piattaforma su cui funziona? Quanto sono infinite le possibilità, rispetto alle straordinariamente più infinite possibilità di comunicazione che avrei se non mi limitassi a un blog, se non mi limitassi a WordPress, se non mi limitassi a questa forma canonizzata? Quanto decido io del fatto che c’è una testata, ci sono delle colonne, c’è un ordine cronologico inverso, ci sono dei titoli, ci sono dei links a destra? Voi direte che questo vale per ogni cosa della nostra vita: ciò che vi sto comunicando è già limitato dalla scelta di usare la lingua italiana, questo alfabeto, la scrittura. Ed è vero, ma io se vi incontro per strada posso ancora scegliere di salutarvi facendo una capriola e urlando “squerepèz” mentre vi consegno il bottone della mia giacca di cartone (anche se probabilmente opterò per “buongiorno!”): mentre qui non posso che scrivere un post. Ne ho scritti migliaia: erano tutti post. Erano tutti uguali.
Ma aspettate, che ho un esempio ancora più efficace.
Facebook.
Il luogo dove tutti possiamo iscriverci e comunicare con gli altri, e lo abbiamo fatto in massa, a milioni, per poter dire di noi quello che vogliamo, ed esprimerci, e condividere, e ognuno a suo modo.
Ma sembriamo tutti uguali. Facebook è un gigantesco spazio di omologazione. Lì ci va la foto (“eh, ma la scelgo io!”), lì ci va la data di nascita (“eh, ma è la mia!”), e quando è il mio compleanno i miei amici ricevono lo stesso messaggio, e ci sembra di avere una grandissima libertà di produrre contenuti ma siamo dentro un contenitore che li limita e definisce straordinariamente.
So che è un trucco facile, ma funziona: provate a pensare alle differenze tra ognuno di noi e gli altri nel mondo, nella vita, e alle differenze tra ognuno di noi su Facebook. Sembriamo tutti uguali. Forse lo siamo, pensa Lanier. Pensa ciò che pensano molti difensori di internet: che essa sia solo un mezzo, e che la qualità dipenda dall’uso che se ne fa. Ma pensa anche che il mezzo sia diventato così pervasivo – e la nostra illusione di autonomia così rassicurante – che gli usi che se ne fanno sarebbero sempre più poveri e meno creativi.

La mia conclusione. È che Lanier sia un po’ troppo catastrofista (non l’ho detto, ma parliamo di uno che conosce le cose di cui parla e ha contribuito a costruirle: non un luddista spaesato di quelli che normalmente criticano la rete qui da noi), ma sappiamo che le tesi moderate e dubbiose non funzionano tanto di questi tempi. Però un punto ce l’ha, ed è un punto che viene da lontano: quello per cui la libertà di espressione non suscita di per sé un buon uso di questa libertà. Il desiderio di comunicare le proprie ragioni corrisponde a un uguale desiderio di capire quelle comunicate dagli altri? O la frenesia della partecipazione e della condivisione limita la qualità di ciò che si condivide e di ciò a cui si partecipa? Se abbiamo detto che quel che conta sono le conversazioni, e poi i modi delle conversazioni non li controlliamo più e sono sempre gli stessi, che abbiamo da aggiungere?
Rimanendo fedeli al parallelo con la democrazia, si può chiedersi se sia una strutturazione e regolamentazione della rete la via per sfruttarne meglio le opportunità. Che non significa mettere divieti o altre sciocchezze, ma costruire un sistema più efficace di applicazione delle norme e dei principi che già condividiamo fuori dalla rete. Ma questo ha senso solo se subordinato a una maggiore informazione di chi frequenta la rete su cosa è giusto e cosa è sbagliato, e a una maggiore informazione di chi giudica cosa sia giusto e cosa sbagliato su cosa è la rete (Lanier insiste su un tema che mi è caro: l’impoverimento dei contenuti favorito dall’anonimato).
Del libro di Lanier non mi hanno convinto le troppe certezze: la tentazione di pensare di aver capito tutto riguarda tutti quanti, e starne alla larga non è facile ed è un impegno da rinnovare a ogni capoverso. Ma io credo, come Lanier, che il miglioramento del mondo passi per le teste: una per una, e tutte assieme. Ma prima una per una e poi tutte assieme.

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