L’emendamento D’Alia era una bozza di articolo di legge che pretendeva di regolare la libera espressione su internet, e che fu in discussione in parlamento l’anno scorso prima di essere sconfitto da una estesa protesta in rete e una conseguente bocciatura politica. Ma la campagna su internet ebbe una tale diffusione che continuò a vivere di vita propria, e ogni tanto appare su qualche sito o blog un allarme contro il rischio che l’emendamento suddetto superi l’approvazione di entrambe le camere. Questa settimana c’è cascato addirittura Antonio Di Pietro, che ha pubblicato su Facebook un messaggio in cui chiamava alla mobilitazione: “La censura diventa legge: approvato l’emendamento D’Alia”. Il messaggio ripreso da Di Pietro veniva dall’anno scorso, e si riferiva a una prospettiva ormai del tutto superata.
Qualche giorno fa il sito del Corriere della Sera ha pubblicato un articolo il cui incipit vale come simbolo di una diffusa incertezza delle notizie, ultimamente: “L’utilizzo eccessivo di internet potrebbe causare depressione. Ma potrebbe essere anche il contrario: cioè chi è già più incline alla depressione è maggiormente spinto a passare molte ore sul web”. Il titolo aveva ovviamente maggiori certezze: “Troppo internet porta alla depressione”.
C’è un vecchio modo di dire giornalistico per cui una notizia sarebbe non “cane morde uomo”, ma “uomo morde cane”. Potrebbe essere stato soddisfatto dalla storia di un labrador che due giorni fa avrebbe ferito il suo padrone sparandogli accidentalmente con un fucile, in California. Magari è vera, ma è anche vero che comincia ad avvenire con una certa frequenza. Nel 2007 un cacciatore del Tennessee sarebbe stato ucciso dal suo cane con una fucilata. Il Corriere riferì nel 1999 di un analogo caso sull’appennino modenese. E l’anno scorso su Virgilio, il sito di telecom, si lesse di un altro cane che aveva sparato al padrone, genericamente “negli Stati Uniti”.