Quello che si è saputo ieri sull’inchiesta su Consip e su Tiziano Renzi – sempre prendere tutto con le molle: ma abbastanza credibile, per i suoi tratti – è soprattutto uno spettacolare twist teatrale e narrativo, prima che politico. La comunicazione corrente tende a semplificare tutto in Renziperde/Renzivince, nell’idea che al pubblico rimbambito interessi solo quello: però ci sono altre cose da dire, che c’entrano con questioni più radicate. Ne segnalo un paio.
La responsabilità di uomini – anche molto importanti – e gruppi di carabinieri nei “depistaggi” e nelle costruzioni di accuse false è un pezzo ricorrente della storia d’Italia: non tanto da fare di ogni erba un fascio, ci mancherebbe, uomini e donne dei carabinieri fanno cose preziose e indispensabili ogni giorno in questa inchiesta e mille altri contesti, ma neanche da ignorare questa frequenza. Mi sembra quindi una definizione un po’ assolutoria quella che oggi usa Carlo Bonini, di “un impostore che indossa l’uniforme di ufficiale dell’Arma dei Carabinieri”. Lo stesso Bonini, infatti, conclude il suo articolo con una domanda sulla “farina del suo sacco” che implica l’ovvio dubbio che l’ufficiale in questione non sia un’anomalia unica, incredibilmente calata in quell’uniforme.
La seconda cosa è che la rivelazione sull’ufficiale Scafarto svela l’eccezionale e acritica dipendenza dell’informazione giornalistica italiana dalle fonti “inquirenti”, ovvero da parti in causa nelle conduzioni delle inchieste, che siano gli uffici dell’accusa o gli organi di polizia a questi legati. La “polpetta avvelenata” di Scafarto (cito ancora Bonini) è stata digerita di buon grado e con appetito: è comprensibile che una fonte “ufficiale” sia presa in grande considerazione dalla cronaca giudiziaria, ma come sappiamo in Italia non esiste nessuna abitudine a indagini giornalistiche accessorie, a una misura di dubbio, a una prudenza scettica. È vero, come indicano con insistenza Bonini e Repubblica, che il primo entusiasta propalatore della versione dell’accusa su Consip è stato il Fatto – e figuriamoci -, ma non mi pare che ci siano stati grandi diffidenze sugli altri giornali: ed è interessante che lo svelamento della falsificazione sia arrivato – nel giorno dei Pulitzer – da un’altra autorità giudiziaria, e non da un’indagine giornalistica. Sarebbe bello pensare che la lezione suggerisca d’ora in poi un atteggiamento meno disciplinato da parte della gran parte dei media nei confronti delle strumentali “rivelazioni” di chi sostiene l’accusa, e generi una riflessione su quante volte gli stessi media si siano fatti strumento di grande duttilità nelle mani di obiettivi non limpidissimi, diciamo.
Aggiungo una terza cosa, già che siamo a parlarne, sul tema Renziperde/Renzivince: un mio amico renziano ieri ha commentato come le due notizie del giorno – quella di cui sopra, e la sentenza contro Beppe Grillo a Genova – potessero essere una svolta di consenso a favore di Renzi e contro il M5S. Il mio parere è che ormai ci voglia ben altro per determinare svolte grandi o piccole, ammesso che siano ancora possibili svolte nelle teste dure, presuntuose e ostili di tutti noi. E che questo genere di notizie, poi, per quanto grosse, parli ormai a una piccola quota di popolazione, composta in gran parte di opinioni già radicate, strutturate, e poco mobili. E comunque diffidenti e deluse.
Ed è questa, la post verità: l’irrilevanza dei fatti nella formazione delle opinioni.