I gattini bonsai non esistono, come sanno spero tutti gli avveduti lettori di Wittgenstein: è una balla circolata cinque anni fa, ampiamente smentita e che eppure continua a convincere chi vi si avvicina per la prima volta. Ritenere sufficiente l’ampia informazione circolata per chiudere quella questione e occuparsi d’altro, è come voler svuotare l’oceano con il secchiello.
Il “caso Sofri” è stato spiegato in quasi tutte le sue parti, e quelle non spiegate richiedono l’intervento di persone a cui nessuno chiede mai ragione delle loro bugie. Sul raccontare com’è andata a chi ne ha informazioni sommarie e sbagliate a questo punto, io mi accorgo di essere vinto da una vile rassegnazione: a suo tempo abbiamo spiegato di falsità e imbrogli si sia nutrito il processo, e abbiamo convinto molte persone a documentarsi e a capirlo. Più di così non ce la faccio.
Ho smesso da un pezzo di spiegare su quali inesistenti basi si fondino le ingenue certezze di molti che ne scrivono, e di mandare a quel paese in modo documentato quelli meno ingenui. L’effetto è quello dell’oceano e del secchiello: ma sono contento e grato quando qualcun altro prende il secchiello.
Ma siccome quando ti hanno menato senza ragione, cerchi di trovare una minima ricompensa nel poter almeno dire “mi hanno menato senza ragione” mentre quelli vanno dicendo che te la sei cercata, a volte mi faccio tentare ancora dal desiderio di obiettare agli errori, alle stupidaggini, che qualcuno scrive o dice. Lo faccio quando ho qualche stima per quel qualcuno e per la sua buona fede, oppure quando quel qualcuno lo fa in luoghi e modi particolarmente “importanti”, propagando una nuova onda di piena sopra il tuo secchiello. Gianni Riotta, da vicedirettore del Corriere, appartiene alla seconda categoria.
Tranquilli, non dettaglierò la rinnovata impressione di vanità e piccineria caratteriale del suo concionare. Nè starò a far le pulci logiche e stilistiche della sua paternale sul Corriere di oggi (che contiene cose che gridano vendetta insieme a mediocri artifici dialettici, come quello di attribuire a qualcuno la tesi di un complotto per facilmente irriderla, oppure giudicare le cose in nome dell’antipatia per chi le dice). Recupero ancora una volta il secchiello solo per comunicare a lui – poco interessato a mettere in discussione le sue certezze – e a chi lo legge che se “nessuno mi ha mai spiegato perché Marino si sarebbe inventato tutto” è probabilmente perché non se ne è mai occupato (non c’è bisogno peraltro di sottolineare come in questo Riotta aderisca fieramente alla linea processuale di ribaltare sull’imputato l’onere della prova). Quando vuole, glielo possono spiegare in molti, come è stato fatto negli ultimi diciassette anni. È evidente – non volendo sospettare la malafede – che non ha un’idea del processo di cui pretende di parlare, e che parte dall’assunto assoluto che se un tribunale ti condanna, è indiscutibilmente nel giusto e nel vero (anche quando lo fa dopo che un altro ti ha assolto, eccetera): confondendo la verità giudiziaria con la verità (che dovrebbero tendere a coincidere, ma nel senso che la prima dovrebbe assomigliare alla seconda e non viceversa).
Non consiglio a Riotta the Pooh di leggere carte, o libri (al libro di Ginzburg che cita, attribuisce una tesi di una tale semplificazione che lo stesso Ginzburg – persona piuttosto intelligente – la troverebbe cretina): è nel suo diritto non informarsi su tutto, se ci sono cose che non gli interessano. Io non ho mai letto Finnegan’s Wake, e non scrivo di Joyce. Men che mai ne conciono, anche per senso della misura.
Corriere della Sera, Sofri.org